sabato 31 gennaio 2009

Forte stoppa ogni alleanza e sceglie la linea attendista

Alessia Tomasini

Michele Forte sta giocando la sua partita in vista delle elezioni di giugno. Il suo partito, per quanto in caduta libera sul piano del consenso, è l’oggetto dei desideri di questa tornata pre elettorale. Il Popolo della libertà lo cerca, il Partito democratico lo brama e lui si fa semplicemente desiderare. Alla fine il bello della politica sta anche nella capacità di vedere gli alleati su quella linea sottile fatta di disperazione e ansia che porta di solito ad una settimana dalla presentazione delle liste ad alzare la posta in tavola. E Michele Forte è un uomo che di politica mastica da sempre, che non si è mai sottratto al gioco compiacendosi di quelle pause che si creano tra un azzardo e un rilancio. E anche questa volta l’Udc non sembra voler deludere le aspettative. Mentre il Pd di Bevilacqua è ancora in attesa di sapere se Forte concederà udienza o meno si è riunito il direttivo provinciale del partito. I lavori hanno visto la presenza, oltre di Michele Forte e del capogruppo regionale Aldo Forte, di 50 membri del comitato. Un primo passo è stato compiuto su una strada che nelle prossime settimane sarà ricca di incontri e di scontri a tutti i livelli istituzionali. Primo punto all’ordine del giorno è stata la crisi ad Aprilia e la caduta verticale del sindaco, sempre sostenuto dal segretario provinciale dell’Udc, Calogero Santangelo. «Dopo aver analizzato le cause che hanno portato alla crisi della giunta di Aprila - spiega Michele Forte - ci siamo confrontati sulla situazione politica generale ma soprattutto su una scadenza per noi molto importante come il rinnovo del consiglio provinciale di Latina e del suo presidente». Nella posizione assunta dall’Udc non si possono leggere strappi ma solo aperture. Una situazione che non ha nulla di straordinario ma ha il sapore della strategia politica. Una guerra di logoramento sottile quella portata avanti da Forte che vuole far emergere con chiarezza le posizioni di alleati vecchi e futuri. «Chiarisco subito - continua il segretario provinciale dell’Udc - che non si è parlato né di candidature né di alleanze future perché in questo momento la nostra priorità è il programma elettorale. C’è grande attenzione verso l’Udc e il nostro modo di fare politica sul territorio. Ma a chi ci tira la giacca ora da un lato, ora da un altro, rispondiamo che non siamo interessati a conquistare alcuna poltrona». Quindi? Al momento non si conferma e non si smentisce nulla. Da buon democristiano Michele Forte lascia aperte tutte le strade e si ferma al bivio ad osservare l’evolversi degli eventi. Una posizione di attesa che non risparmia qualche frecciatina agli alleati di An. «Non chiudiamo la porta in faccia a nessuno, né al Pd, né al Pdl, perché vogliamo aprire un dialogo e un confronto serio sui problemi concreti. Stiamo lavorando ad un documento che analizza tutte le criticità – continua Forte – emerse nei comuni della provincia e che porteremo all’attenzione della conferenza dei sindaci». E qui la freccia viene scoccata all’indirizzo del sindaco Zaccheo reo di non aver ancora convocato la riunione invocata sullo stato della sanità. «Il sindaco di Latina non ha ancora risposto alla nostra richiesta fatta quindici giorni fa. Quindi – conclude Forte – prima di discutere di future alleanze bisogna che ci sia chiarezza su una serie di questioni che, riguardando la vita dei cittadini, vengono prima di qualsiasi trattativa elettorale. Dal canto nostro, obiettivo primario rimane quello di rafforzare l’area moderata e di centro con il progetto della Costituente di centro».

D'Incertopadre: «Pfizer non esiste più»




Teresa Faticoni

«Inutile fare la voce grossa, Pfizer è andata via». Deciso e determinato Salvatore D’Incertopadre, segretario generale della Cgil di Latina, interviene sulla questione che tiene banco in questi giorni. Non si tratta solo di politiche sindacali fallite, di strategie messe in campo senza tener conto dei contesti, ma di un modo di intendere il sindacato. Non si tratta di difendere il reddito, ma il lavoro. Il che implica un lavoro difficile e complesso di check&balances nelle aziende e tra i lavoratori. Lo incontriamo il giorno dopo lo sciopero organizzato in solitaria dalla Ugl nello stabilimento di via Monti Lepini. Una manifestazione mirata alla richiesta di un ulteriore anno di stabilizzazione del personale. Pfizer, secondo gli accordi commerciali con Haupt Pharma, ha garantito dai 18 ai 24 mesi di produzioni. La società di Berlino, che mette per la prima volta piede in Italia proprio con il sito di Borgo San Michele, ha già annunciato di aver avviato indagini di mercato per trovare nuove produzioni da portare in terra pontina. Ma per farlo ci vogliono almeno tre anni. A questo punto, però, è troppo tardi per intervenire e lo sciopero di ieri sembra solo uno strillo lanciato nell’universo. Non incide nemmeno su sé stesso. D’Incertopadre parla, a proposito dell’organizzazione sindacale che ha organizzato la protesta – che a conti fatti è quella maggiormente rappresentativa all’interno della fabbrica di medicine – «di dilettantismo e di superficialità». Quando un anno fa circa Pfizer annunciò di voler mettere sul mercato lo stabilimento partirono una serie di incontri per capire quale potesse essere lo scenario e quali le contromisure da mettere preventivamente in campo. Per evitare, come accade spesso, di correre al capezzale del morto mentre il prete somministra l’estrema unzione. Lo stesso presidente della Provincia di Latina, Armando Cusani, si era interessato della questione e aveva interloquito con la dirigenza del più grande gruppo del settore farmaceutico al mondo che evidentemente, visto che poi sui tavoli istituzionali era calato un pesante silenzio, aveva garantito di muoversi secondo il principio della responsabilità sociale d’impresa. In un certo qual modo così è stato, perché al momento di scegliere tra una società cinese e Haupt Pharma, la scelta era ricaduta sulla multinazionale contoterzista di Berlino che garantiva maggiori certezze. Ma gli accordi che riguardavano mantenimento dei livelli occupazionali e certezza di volumi produttivi andavano fatti all’epoca dell’annuncio di messa sul mercato del sito. «Non si è riusciti a fare l’intesa nella fase di passaggio – ricorda infatti il segretario - come del resto abbiamo sempre fatto». E la memoria va subito a Tetra Pak e Gambro: entrambe le multinazionali furono inchiodate alle proprie responsabilità rispetto ai lavoratori. Certo, i patti possono sempre essere non rispettati, ma il sindacato su quei terreni giocò una partita importantissima. In questo caso, forse, ci si è fidati troppo delle parole della Pfizer, che naturalmente in fase di trattativa non poteva cedere il tutto e per tutto. Parliamo pur sempre di una trattativa tra privati. Cosa chiedere dunque per il futuro alla nuova proprietà? «Un piano industriale, che doveva essere presentato dalla Haupt prima che tutto fosse definito, prima che Pfizer andasse via – sottolinea D’Incertopadre -. Vogliamo capire cosa verrà dopo le produzioni Pfizer. Non possiamo rischiare ulteriori fasi di fuoriuscita di lavoratori. La speranza è che i lavoratori si rendano conto che l’impresa fa i suoi interessi economici».

Di doman non v’è certezza, chi vuol esser lieto sia

Lidano Grassucci


Il mondo cambia e in fretta, nulla è scontato. Forse questo fa paura, forse non siamo attrezzati al mutamento. Vorremmo fermare il mondo così com’è. “Di doman non v’è certezza chi vuol esser lieto sia”, lo diceva Lorenzo de Medici quando l’italiano era un bambino. Ora è grande ma la cosa resta la stessa, non c’è sicurezza di domani e la gioventù fugge. Forse la crisi è tutta qui, gli analisti sono vecchi signori che vedono nero perché davanti a loro c’è la vecchiaia e debbono passare la mano della gioventù. Per questo credo che nelle crisi ci sia una sola certezza, prima o poi passano. Come l’influenza: che quando arriva ti costringe a casa, quando è al suo apice ti par di morire, pare che sia destinato a non finire, vengono meno le forze. Poi passa, e si ricomincia. Tutto torna come prima del male, anzi dimentichi quel male fino alla influenza successiva.
Certo il mondo è dei menagrami, i profeti di sventura quelli che vedono la morte e il male ovunque. Quelli che hanno la certezza della loro fine e la fanno diventare collettiva.
La gente normale è “condannata” vivere. Chi ricorda la crisi del petrolio degli anni ’70, con le domeniche senza auto? Chi ricorda la crisi dei missili sovietici puntati contro di noi, gli SS20?
Nel primo caso saremo dovuti morire per mancanza di petrolio, nel secondo uccisi dai russi.
Siamo qui, siamo ancora qui.
Le previsioni di fine? Reali per chi ha finito la sua vita allora, assurde per i bambini che nascevano allora. Anche oggi nasceranno bambini, per loro il mondo sta cominciando. Sei ottimista? L’alternativa è non vivere. Siamo condannati all’ottimismo.
Chi vuol esser lieto sia di doman non v’è certezza.

prima pagina del 31 gennaio

Scioglimento del consiglio comunale, cronaca di un'ossessione

di Irene Chinappi


Corrono nei vicoli del centro, tra i tavoli dei bar all’aperto. S’incuneano nelle asole dei cappotti e filano via come il vento, di casa in casa, di negozio in negozio, di ufficio in ufficio. Parole, solo parole. Certezze senza fondamento, accuse, teoremi, segreti che non hanno mistero. Così vive Fondi da qualche settimana a questa parte. Questo è quanto ha generato l’ attesa del verdetto del Consiglio dei Ministri sullo scioglimento del Consiglio comunale. La stessa tiritera va avanti da un mese e mezzo. «Il governo - s’era detto - deciderà sicuramente prima di Natale». Pure la data era certa. Poi arriva quel giorno e si scopre che i ministri non hanno neppure nominato Fondi. «Va bè - dicono - non avranno avuto tempo. Ma per la prossima seduta è sicuro che il Consiglio dei Ministri firmerà lo scioglimento del Consiglio comunale di Fondi. Succederà nella prima riunione del 2009». 16 e 23 gennaio: due riunioni. E ancora niente. «Mannaggia». Il governo ha dovuto pensare all’emergenza maltempo, allo “scambio di note fra l’Italia e la Svizzera sui confini mobili sulla linea dei ghiacciai” (roba seria ma fa sorridere), gli sbarchi degli immigrati a Lampedusa, e altre cose. Ma su Fondi neanche una parola. Pareva proprio che ieri fosse finalmente il giorno X. Giovedì il vento sussurrava che il giorno seguente Fondi avrebbe scoperto il destino dell’amministrazione Parisella eletta nel 2006. Non c’erano dubbi. Sarebbe stato così. La seduta inizia alle 12 e 50. Tutti incollati davanti agli schermi per scoprire il verdetto. «E’ sicuro, si scioglie, Maroni ha già firmato». «Io lo so per certo, non si scioglie». I ministri escono soddisfatti dall’aula. Hanno approvato un decreto-legge sulle quote latte. Anche a Fondi hanno gioito, perché pure a Fondi c’è qualcuno che fa il latte, mica solo le mozzarelle. Hanno perfino deciso di emettere una serie di carte valori postali celebrative e commemorative per il 2009. Magari ci mettono pure Fondi sui francobolli. Se lo meriterebbe solo per la fama che si è conquistata nel 2008. Bando alle preveggenze. Le cose stanno così: il Ministro Maroni sa quello che deve fare. E magari non accadrà semplicemente più nulla.

venerdì 30 gennaio 2009

An stoppa la corsa azzurra e cerca a Roma garanzie Pdl

Alessia Tomasini

Alleanza nazionale alza le barricate. La linea seguita è quella della lotta continua a Forza Italia. Il gruppo era al gran completo in attesa di ascoltare il verbo di Aracri. Ma? Le posizioni dei leader pontini non hanno tardato a farsi sentire. Il sindaco Zaccheo non ha lasciato adito a dubbi. La candidatura di Cusani alla presidenza della provincia è probabile ma non può essere scontata. Si chiede il coinvolgimento di tutti gli amministratori in questa decisione e soprattutto si pone un freno alla ricandidatura certa di Stefano Zappalà al parlamento europeo. Un quadro di chiarezza che forse il coordinatore regionale non si aspettava e che si è consumato su un totale assenso dei vertici del partito rispetto alle posizioni del sindaco e presidente onorario di An. A questo si è aggiunto un altro elemento certo non del tutto inaspettato. Alleanza nazionale è pronta a tutto pur di ottenere la leadership del Popolo della libertà in terra pontina. Un passaggio che si è cercato di portare a casa senza troppi strappi con Forza Italia ma che si è consumato con un nulla di fatto sotto un cielo sempre più denso di nuvole e senza che all’orizzonte sia visibile alcuna schiarita. Di fronte alla marcia eterna di Forza Italia che sta pensando alla strategia elettorale piuttosto che agli screzi che ne contraddistinguono il percorso An è tornata a far leva sui tavoli romani. Sembra che nel corso di alcune riunioni sia stato tracciato una sorta di galateo che senza dissidi, ma per semplice accettazione delle parti, dovrebbe consentire una equa spartizione del territorio in base alle forze del centrodestra che lo governano. Il colpo di genio consisterebbe in uno schema semplice. Il governo del Popolo della libertà a livello territoriale dovrebbe essere strutturato in comitati comunali e provinciali. Se la Provincia è guidata da un presidente azzurro allora il coordinamento provinciale sarà di An. Allo stesso modo se un Comune è di An, come quello di Latina, il rispettivo coordinamento sarà affidato a Forza Italia. Una logica che calzerebbe a perfezione al partito di Fabio Bianchi che troverebbe ancora una volta il trattato di pace firmato a Roma per una guerra partita da Latina. Su questo e su molte altre questioni si è atteso ieri nella direzione provinciale di An la parola del coordinatore regionale, Francesco Aracri. Intorno ad un tavolo volti lunghi, alcuni sospetti su possibili corse in avanti hanno fatto da padrone sul colloquio che è iniziato alle 18 e si è prolungato sino a tarda serata. Tante le domande cadute nel vuoto a creare un rumore assordante sulle aspirazioni che potrebbero vedere lo stesso Fabio Bianchi in corsa per la guida del Popolo della libertà.

La crisi dalla gola grassa

Lidano Grassucci


La paura è una brutta bestia. E’ brutta perché ammala la testa, non ti fa ragionare. In questi giorni è la paura che la fa da padrone, c’è la crisi e… moriremo tutti. Eppure anche questa mattina è uscito il sole, anche oggi debbo mangiare, mi debbo vestire e, se ci scappa, debbo ridere. Il mondo non è finito e non lo farà tanto presto, quindi ci tocca vivere. Qui è tutto un disastro, mai così male. Una volta sì che eravamo felici.
Come si dimentica presto il peggio. Il problema non è la crisi è l’egoismo, la paura di perdere il superfluo che abbiamo conquistato, il senso del peccato che pervade chi ha conquistato un pezzo di felicità. Non siamo in crisi perché non abbiamo più, ma perché abbiamo paura di perdere i privilegi, perché non abbiamo più sogni. Obama ha vinto perché era più ambizioso degli altri, aveva più voglia di vincere. Credo che noi abbiamo perso la voglia di vincere, non abbiamo ansie di riscatto. Domani è difficile, ma lo è di più se ho solo paura di perdere quel che ho e non ho la speranza, l’ambizione, l’ardire di volere di più.
La crisi è forse tutta qui, non abbiamo l’ardire dell’ambizione, di volere di più. La paura è delle civiltà grasse, la speranza l’ambizione è di chi non ha niente da perdere.
La gravità di questa crisi? Sta nel fatto che abbiamo tutti qualcosa da perdere, siamo avidi delle cose che abbiamo e non desiderosi delle cose che potremmo avere. Per questo è tutto più complicato, forse ci manca un sogno e la gola grassa ci impedisce di dormire.

Il derby delle città

Maria Corsetti

Città megalitiche contro città nuove: parte il derby della provincia di Latina. La fu palude pontina cerca di accreditarsi come patrimonio dell’Unesco? I Monti Lepini rilanciano con le mura ciclopiche. «Queste mura sono ancora in piedi, integre, a distanza di migliaia di anni» recita il comunicato stampa: e te credo, prova a tirarle giù, ci vuole la dinamite per scalfirle. Sono più fortunate dei palazzi di fondazione che un paio di colpi di ruspa e si sgretolano come pasta frolla. Sezze è indimenticabile per le crostatine di visciola, le ciambellette al vino di Cori accreditano la città nel mondo, le mura ciclopiche danno fastidio quando passi col suv. Adesso questi vogliono tutelarle. E qui c’è da preoccuparsi. Per le mura. Millenni di solenne dignità distrutti da progettini volti a valorizzare, attraverso un percorso sensoriale che faccia rivivere le emozioni dell’epoca dei ciclopi, ascoltando antiche litanie, il patrimonio di un’epoca felice che tutti avremmo voluto vivere e invece siamo qui con tv color lcd, jacuzzi e voli low cost. Almeno con le città nuove metti “Faccetta nera” e stai a posto.

Vorrei ma non posso essere un diavolo che veste Prada

Maria Corsetti

Qualche giorno fa ho fatto parte della schiera che ha visto “Il diavolo veste Prada” in tv. Al cinema me l’ero perso. Meryl Streep: l’eccezionale per lei è la regola, i suoi personaggi sono indimenticabili. Posso immaginare sul grande schermo l’effetto che fa quel volto, familiare per averlo visto in mille interpretazioni, sconosciuto per averlo visto cambiare mille volte. Nel film la cattiveria è elegantissima. E, agli occhi di un’italiana, una donna vestita bene è meno colpevole di una vestita male. In effetti il messaggio del titolo vorrebbe dire questo: non farti ingannare, quella è tremenda. Sarà tremenda, ma non molla un secondo. Arriva prima degli altri, intuisce pericoli e opportunità, si libera senza troppi scrupoli di collaboratori poco efficienti o poco ambiziosi. Quello che tutti vorrebbero fare, ammettiamolo. Non è il Diavolo a vestire Prada, sono i nostri sogni di gloria a farlo: chi nella vita, uomo o donna che sia, non ha desiderato arrivare prima degli altri, liberarsi dei pesi morti sul lavoro, indossare capi pregiatissimi che quando te li metti già ti senti a un altro livello? Per questo il lieto fine della storia non è dato dagli occhi grandi dalla giovane apprendista diavolessa che decide di mollare la competizione per amore, ma dal fascino senza tempo di Meryl che scende dal taxi come solo una diva di Hollywood sa fare. A questo punto vestite di tailleur preso di straforo alla bancarella del mercato, borsa di Ysl acquistata a venti euro dal marocchino in piazza, scarpe scovate all’outlet e braccialetto Tennis finto Swaroski, diamoci da fare per la scalata made in Italy.

Pfizer, matrimonio finito male






Teresa Faticoni

Finisce malissimo il matrimonio per oltre 50 anni che ha legato Pfizer alla provincia di Latina. Come nella guerra dei Roses Pfizer se ne va e i lavoratori sbattono i tamburi. Ieri mattina in via dei Monti Lepini alcuni lavoratori dello stabilimento di Borgo San Michele si sono riuniti in un sit in. Lo sciopero, organizzato solo dalla Ugl senza Cgil, Cisl e Uil, era proprio contro la multinazionale americana che vende il sito pontino alla Haupt Pharma, società contoterzista di Berlino, senza le garanzie che tutti avrebbero auspicato. «Non chiediamo soldi, vogliamo lavorare», tuona Luigi Ulgiati, da poco eletto segretario nazionale della categoria chimici del sindacato guidato in Italia da Renata Polverini. C’è tutto il gotha dell’organizzazione: Claudio Durigon, segretario generale di Latina, Armando Valiani, segretario generale della categoria in provincia, Gianni Chiarato, consigliere comunale e rappresentante sindacale unitario Pfizer. Insieme a tanti lavoratori, anche se in molti hanno scioperato ma preferito rimanere a casa. In tutti i turni circa 300 persone (pari all’80% del totale dei dipendenti), dati forniti dal sindacato, si sono astenute dal lavoro. Alcuni reparti sono stati fermi. «Questo è lo sciopero più riuscito mai effettuato in Pfizer», aggiunge Ulgiati. «È giusto il sistema usa e getta?» si chiede Gianni un operaio che sventola la bandiera bianca siglata dell’Ugl che ricorda i benefici ottenuti grazie alla cassa del mezzogiorno. Il problema, però, nonostante la protesta di ieri, rimane. Pfizer non vuole garantire tre anni di commesse alla Haupt Pharma, che ha deciso di mantenere fissi i livelli occupazionali – al momento sono impiegati 473 dipendenti a Latina – solo per due anni. La società tedesca ha già avviato indagini di mercato per portare nuove produzioni qui, ma occorrono fisiologicamente tre anni. Come annunciato dall’amministratore delegato di Haupt, Hans-Christian Semmler, nella prima riunione in Confindustria. Una coperta troppo corta, dunque, che potrebbe bastare a tutti se solo Pfizer, come chiesto dai lavoratori, facesse qualche sacrificio. Che poi significherebbe aumentare di un anno i suoi accordi commerciali con la nuova società. Un affare, questo, dai costi piuttosto contenuti. Haupt verserà nelle casse di Pfizer 12 milioni di euro per l’acquisto dei medicinali del magazzino. La multinazionale, il più grande gruppo farmaceutico al mondo – che con l’acquisto della concorrente Wyeth sta per restringere il mercato a un oligopolio -, ha speso tra il 2008 e il 2009 13 milioni di euro per entrare nel mercato statunitense accreditando lo stabilimento alla Food&Drug Administration. In via Monti Lepini ieri qualcuno insieme alle tante bandiere, ha appeso due lenzuola con una vignetta. C’è una mucca con la scritta Pfizer. Due persone parlano tra di loro. «Ma la vendete a terzi?», chiede il primo. «No, a quarti», risponde l’altro. La versione originale era più cattiva. Che aria si respira in quel sito? «C’è incertezza – ci risponde Marco Testa, rsu Ugl – certo ci mancherà la scritta blu che per anni ci ha accolto». Martedì 3 febbraio sparirà l’ovale blu tanto famoso per la produzione di viagra, arrivano i tedeschi. Via Pfizer, ora c’è Haupt Pharma.

giovedì 29 gennaio 2009

prima pagina del 30 gennaio

Il Pd aspetta la grazia Udc e perde appeal a sinistra




Alessia Tomasini

Loreto Bevilacqua sembra stia giocando la sua partita determinante per le provinciali 2009. Una gimkana che si muove sul filo di un Partito, quello democratico, che dovrebbe creare un percorso che passa dalle urne di giugno per arrivare alle regionali del prossimo anno con un bottino di consensi che possa agevolare una conferma del presidente Marrazzo ma che si esaurisce in un monologo. «Si ha la sgradevole sensazione di essere considerati poco più che dei parenti poveri assistendo dall'esterno al dibattito sulla candidatura a presidente della Provincia che in queste settimane sta impegnando il gruppo dirigente del Pd. Mai, nemmeno per sbaglio viene richiamata la necessità di coinvolgere in questo processo - spiega il consigliere provinciale Federico D’Arcangeli - i possibili alleati della Sinistra». L’atteggiamento dei vertici del Partito democratico sarebbe comprensibile se si partisse da una situazione di forza e non, come in questo caso, da quella di debolezza. Quello che doveva essere il volano del centrosinistra si è rivelato in breve tempo un pantano per i leader provenienti da Democratici di sinistra e Margherita. Se si mettono in fila tutti gli incidenti di percorso sulla strada che doveva portare a delineare l’identikit dell’anti Cusani si rischia di restare senza parole. Si parte dal tentativo di sollevare qualche scampolo di orgoglio a fine agosto con le dichiarazioni del sindaco di Gaeta, Antonio Raimondi con la proposta di accelerare i tempi di scelta per passare alle invocazioni alle primarie fino alla discesa di nomi improbabili quanto non disponibili. Il tutto solo per finire in febbraio, a quattro mesi dal voto, con una manciata di fumo tra le mani. Che il Parito democratico stia navigando a vista lo dimostra il fatto che qualcuno, Loreto Bevilacqua per primo, sta ancora sperando in un possibile accordo con l’Udc. Un’alleanza che non trova riscontro neanche nelle tante riunioni che sono state richieste e che sono ancora in attesa di un cordiale cenno di riscontro. «Siamo sconcertati di fronte alle parole di grande attenzione del Pd nei confronti dell'Udc cui qualcuno pare sia disposto a cedere la carica, per il resto - continua il consigliere provinciale della Sinistra - si continua a veleggiare sulla scorta di una rosa tutta interna a quel Partito, dimenticando non tanto che se coalizione sarà dovrà avere un candidato unitario». La preoccupazione che emerge dalle parole di Federico D’Arcangeli è condivisa da tutti i partiti di sinistra che hanno preferito un percorso alternativo a quello del Pd. Tutti sono preoccupati in vista delle provinciali di un atteggiamento che vuole ridurli a semplici comparse o portatori sani di voti. Il messaggio che i vertici del Partito democratico non riescono a recepire è proprio questo: finchè continueranno a far sentire i possibili alleati come semplici ospiti nel salotto buono della politica i margini di arrivare ad una coalizione si riducono al minimo storico. «Se vogliamo davvero giocare una partita seria contro un centrodestra che inquieta anche diviso - continua D’Arcangeli - dobbiamo almeno tentare di allargare il raggio del nostro ragionamento a cominciare dalla ricerca del candidato presidente». Quindi? In questo spiraglio di apertura qualcuno potrebbe leggere una svolta di coalizione ma dovrà frenare l’entusiasmo. Bisticci, litigi, silenzi sono molto più inquietanti di quanto si potrebbe pensare. La rissa intestina al centrosinistra formato Pd è diventata un elemento strutturale del modo stesso di fare politica dall’altra parte del Popolo della libertà. Perchè se è vero che nel Pd avranno anche tutti delle ottime ragioni per suonarsele è anche vero che i cittadini sono stanchi di vedere che il nuovo centrosinistra seppure nato con le migliori intenzioni è ormai pilotato dalle peggiori. «Quanto al fatto che si riesca a costruire una coalizione unitaria anche con la Sinistra, mi permetto a titolo personale di suggerire agli amici del Pd una riflessione attenta sugli effetti disastrosi che la scellerata riforma elettorale per le europee voluta da Veltroni rischia di avere sullo stato dei nostri rapporti. In questo momento - conclude Federico D’Arcangeli - non scommetterei un centesimo sull'esito positivo della vicenda». Ora? Il sasso è stato lanciato. Il problema da superare è stato chiarito e sta nell’indecisione e nella chiusura costante del centrosinistra al resto del mondo. Se verrà superato non è dato sapere.

Piazza Farnese ricorda i parenti delle vittime di mafia


Francesco Furlan


Da quando scrivo, ho imparato che un buon articolo oltre a dover essere preciso sui fatti narrati deve fare notizia. E’ con questo spirito che ancora una volta ho seguito i fatti alla ricerca della notizia. Mercoledì mattina sono stato a Piazza Farnese a Roma per seguire la manifestazione dell’Associazione Nazionale Familiari Vittime della Mafia. Sono arrivato lì intorno alle nove. Piazza piccolina capace di contenere non più di quattromila persone. ‘Io so’ scritto a caratteri cubitali sui totem affianco al palco sotto cui campeggiava la storica foto che ritrae uno affianco all’altro Falcone e Borsellino. Io so che cosa mi chiedo non appena la leggo. Lo spiegano i familiari che si alternano sul palco e i video che vengono trasmessi. Sonia Alfano, figlia di Beppe, giornalista ucciso dai sicari mafiosi, regge la scena e annuncia un video crudo. Su una silenziosa piazza, che pur in un giorno feriale si va riempiendo al massimo delle sue capacità, viene proiettato un video in cui compaiono, uno dopo l’altro, filmati e foto d’epoca in cui sono ritratti, senza censure, i corpi uccisi di magistrati, carabinieri, poliziotti, innocenti servitori dello Stato trucidati, esplosi, lacerati, senza arti, lasciati cadaveri sulle strade, nelle auto, sui muri, nelle piazze e nei vicoli ovunque la rabbia mafiosa si sia scagliata. Chi scrive fatica a stento a trattenere le lacrime perché in un attimo diviene parte di quell'umanità negata, di quelle famiglie spezzate, improvvisamente si sente più italiano. Dopo il primo choc, un ulteriore pugno nello stomaco. Viene trasmesso, con tanto di sottotitoli, una conversazione intercettata tra Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, noto consigliere dell’attuale premier. Parlano di tale Mangano, ufficialmente stalliere della villa di Arcore di proprietà del premier. Si raccontano tra loro di un recente, all’epoca dell’intercettazione, fatto di cronaca: parlano di una bomba, di qualche chilo di tritolo, di denaro da dare a qualcuno perché Mangano la faccia franca. Proseguono raccontandosi che Mangano è una persona che “non sa né leggere, né scrivere” e che quando vuole mandare un messaggio, mette una bomba. Ridono. Un altro filmato subito dopo: si riconosce Paolo Borsellino. E’ l’ultima intervista rilasciata prima di saltare in aria in via D’Amelio a Palermo. Racconta di un’inchiesta che vede coinvolti Mangano e Dell’Utri. Terminano i filmati e cominciano uno dopo l’altro a comparire sul palco i familiari delle vittime di mafia. Salvatore Borsellino, fratello di Paolo, è rabbioso e commovente allo stesso tempo. Lui e Sonia Alfano fanno accuse precise. Accusano l’attuale ministro della Giustizia Angelino Alfano di essere stato a matrimoni di noti appartenenti a Cosa Nostra, accusano il presidente del Senato Renato Schifani di essere stato consulente in Comuni sciolti per mafia, accusano il presidente del Consiglio di essere il primo a tenere rapporti con la criminalità organizzata e a puntare all’indebolimento della magistratura nella lotta contro Cosa Nostra. Borsellino è durissimo: “Mio fratello Paolo non avrebbe mai accettato di essere ucciso come accade oggi”. Si riferisce ai magistrati Clementina Forleo, Luigi De Magistris, Luigi Apicella allontanati dai loro posti di lavoro. E urla: “Mille volte avrebbe preferito il tritolo in cui è esploso lui e gli uomini della sua scorta”. Poi entrano in scena i volti noti e attesi: Di Pietro, Travaglio, Grillo. Le frasi che Di Pietro pronuncia nei confronti del presidente della Repubblica Giuseppe Napolitano sono acqua fresca al confronto di quanto è stato affermato sino a pochi minuti prima da chi, per rabbia o perché “Io so”, ha accusato senza mezzi termini i vertici dello stato. Ma la notizia dalla piazza, ieri che ho aperto i giornali più accreditati, era uno striscione esposto, “Napolitano dorme, l’Italia insorge”, e le frasi di Di Pietro, non che in una piazza di quattromila persone, familiari di vittime di mafia non credono più in chi rappresenta lo Stato e anzi indicano, facendo nomi e cognomi, i suoi rappresentanti attuali come i mandanti della morte dei loro cari. In Italia, evidentemente, che chi dovrebbe non creda più nello Stato, non fa alcuna notizia. E nemmeno fa notizia che non senta il bisogno di difendersi chi pubblicamente è accusato di cose gravissime. Più politicamente corretto difendere il Presidente della Repubblica dall’accusa di narcolessia e scarsa equidistanza. E cosa, invece, da preferire eticamente?

Meccano, era già tutto previsto


Teresa Faticoni

«Hanno deciso a monte che la Meccano non va finanziata». Roberto Caccavello, segretario della Uilm Uil è amareggiato a margine dell’incontro tra le sigle sindacali e Sviluppo Lazio. La società regionale per la crescita socioeconomica del territorio ha deciso di mettere il cartello “the end” al miraggio industriale di far nascere un’altra azienda metalmeccanica al posto della ex Good Year. Ieri si è sfiorata la rissa a Roma: chi lo va a spiegare ai lavoratori che le istituzioni li hanno abbandonati, che hanno gettato alle ortiche quella che era la loro liquidazione reinvestita totalmente in questo progetto una decina di anni fa, che oramai sono ex operai della ex Meccano, un sogno che si è trasformato in un incubo? Filippo Giordano, della Uilm, ha chiesto ufficialmente a Rosanna Bellotti, dell’assessorato al bilancio della Pisana che dal primo momento ha seguito questa complessa vicenda, e all’assessore al lavoro Alessandra Tibaldi di intervenire oggi all’assemblea sindacale. In fin dei conti appena eletta era scesa a protestare sull’Appia. Un modo per riportare tutti alle proprie responsabilità. Nell’incontro di ieri i dirigenti Meccano, viste le resistenze della controparte, hanno alzato i tacchi e hanno detto alla Regione: «Ora ai 158 lavoratori pensateci voi». Una situazione, questa, che rischia di avere un impatto sociale altissimo. 158 persone che hanno scommesso su un progetto fallito per motivi che qualcuno dovrà prima o poi giustificare. Non c’è nessuno, a questo punto, che può esimersi dalle sue implicazioni. Già dalla scorsa estate era partito lo scaricabarile: ci sono 158 famiglie che non sanno cosa sarà del loro futuro.

La politica e il non senso

Lidano Grassucci


Bevilacqua, coordinatore provinciale del Pd, vorrebbe parlare con l’Udc, per un’alleanza elettorale contro Cusani. Probabilmente sono troppo stupido per capire: ma perché Forte (il capo dell’Udc pontina) dovrebbe andare con Bevilacqua?
Un motivo potrebbe essere che Bevilacqua è vincente, manco pe niente: dobbiamo decidere se cade per ko al primo round o se va giù al secondo. Neanche il più improbabile analista politico pensa che arrivi alla fine dell’incontro.
Dice, l’Udc dovrebbe andare con Bevilacqua per far dispetto a Cusani.
Perché? Cusani ha sostenuto, contro Bevilacqua che portava Bartolomeo, la corsa di Forte a sindaco di Formia, la giunta di Formia è formata da Udc e Popolo delle libertà.
Per fare un favore a Bevilacqua e a Ciarrapico Forte si dovrebbe suicidare.
Michele Forte fa politica da bimbo, avrà tanti difetti ma fesso non è.
Allora? Dico come dice il mio amico di Carpineto Bianconi: “ma de che parlimo?”.
Qualcuno ipotizza una alternativa a destra. Contro Zaccheo, Cusani, Fazzone e Forte potrebbe scendere in campo Umbertino Macci sindaco di Priverno con i voti di Ciarrapico e di Conte. I nostri potrebbero ingaggiare il già trombato a Latina Cirilli. Sono quattro e fanno fatica a trovare il quinto voto. E’ come se un gruppo di scapoli dopo aver battuto gli ammogliati sabato pomeriggio volessero battere il Brasile.
La politica non è gioco di società, ha regole e memoria.

mercoledì 28 gennaio 2009

La memoria e l'umanità

Lidano Grassucci



Cos'è la memoria? Sono ricordi che hai accanto, che ti aiutano nel presente, che ti creano gli anticorpi per il futuro. I ricordi con il tempo seccano, diventano poca cosa. Sono foglie morte. Stiamo facendo degli stage a scuola e i ragazzi restano distaccati, per conto loro. Perché la memoria secca prima se è malata di retorica, di buona coscienza. Facile dire: questa è una storia della follia nazista, da noi non può accadere. Si vedono i campi di concentramento in Germania, i soldati tedeschi. Eppure nel 1936 noi italiani facemmo una legge che rendeva diversi i nostri concittadini di religione ebraica, in pochi inorridirono, in pochissimi protestarono. Il perfido giudio stava pure nelle preghiere. Tutto normale, non ci fu indignazione. Sulla cattedra della classe dove presento lo stage c'è una ricerca sulla letteratura e la memoria, si cita Primo Levi "se questo è un uomo".

Ecco lui non dice "se questo è un ebreo", "se questo è un cristiano", "se questo è un musulmano". Dice "se questo è un uomo". L'uomo non è il suo credo religioso, la conformazione del suo naso, la lingua che parla. L'uomo è carne, ossa sangue, è umanità.

E' la radice d'occidente quel titolo, per noi conta ciascuno perché l'umanità non è una massa informa, ma tanti uomini che stanno insieme.

Un ebreo non muore di meno di un cristiano, di un buddista.

Nel 1936 scrivemmo una legge disumana, perché non c'era umanità. Ieri dovevamo guardare dentro la nostra cattiva coscienza non lavandola in una ipotetica coscienza peggiore altrui.

Questo, l'infamia delle leggi razziste del '36, da sole rendono ignobile chi le ha scritte, il dittatore che le ha pensate, il Re che le ha firmate.

Ma come i fascisti fecero belle città, costruirono canali, diedero la terra ai contadini (sic!). Erano buoni i fascisti.

Voglio parafrasare Levi, mi perdonerete, "può essere umano chi nega l'umanità?".

E' utile il giorno della memoria? Se c'è qualcuno che vede del bene lì dove non c'è umanità è utile, è necessario.

Non mi interessa come gli uomini pregano Dio, non mi interessa chi crede sia, solo, suo Dio. Mi preoccupano chi vuole avere l' "esclusiva" di Dio.

L'ultimo mondo

Maria Corsetti

Con parole diverse la Shoah è ancora presente nel mondo con stragi dimenticate. Da qui si potrebbe partire per raccontare ai ragazzi del terzo millennio quegli anni, pochi se vai a vedere bene, hanno segnato una vergogna indelebile. Le hanno raccontate scrittori e registi, eppure le loro parole, ripetute ieri da una scuola all'altra, da una parte all'altra d'Italia hanno un aspetto in bianco e nero. Che oggi sa troppo di lontano e inimmaginabile per far capire a che livello l'umanità sappia abbassarsi. I ragazzi ascoltano, ma forse non sanno che dietro l'angolo della nostra contemporaneità - era il 1994 - in Ruanda sono state massacrate quasi un milione di persone. Forse giorni come il 27 gennaio dovrebbero servire anche ad avere il coraggio di ammettere che oltre il terzo mondo ce n'è un altro ancora, dove non sono solo la fame, la miseria e le malattie a scrivere la parola fine alla speranza di una vita.

lunedì 26 gennaio 2009

A Giarre una Latina normale

Lidano Grassucci



Sono stato ospite a Giarre, in Sicilia, di Pietro Piccoli che lì esponeva. Ero a 1000 chilometri da Latina, un mondo che forse più differente non si può immaginare: una borghesia antica, quanto la nostra è recente, una cultura sedimentata nel tempo, nelle strade, nei posti quanto la nostra è superficiale. Quercia e insalata sono tutte e due piante, la loro diversità di forza sta nel tempo.
La struttura che ospitava la mostra di Piccoli è intitolata a Rosario Romeo uno dei più grandi storici italiani. Uno che ha raccontato come l’Italia è nata, una e liberale.
Il sindaco della città, la signora Teresa Sodano, inaugura la mostra parlando di mediterraneità. Mi chiedo cosa significhi. Lo capisco in una sala della mostra, c’è un dipinto che raffigura il chiosco davanti al mercato coperto di Latina con il barista e tre avventori. E’ Latina, un angolo della mia città, davanti tanti visitatori che guardano, che entrano e si incuriosiscono del mio mondo da un altro mondo. Certo per loro quel posto non dice nulla, per loro è il chiosco bar che sta nella loro piazza, ma per me è la chiave di volta per comprendere quello che diceva il sindaco. Esiste un comune sentire, un modo di scrivere i luoghi, di trasmettere sensazioni che è leggibile da molti, da una comunità.
Quello voleva dire, voleva dire che la provincia non è il cimitero dei cervelli, ma spesso ne esalta le potenzialità.
Rosario Romeo ha spiegato la nascita di uno stato da un angolo remoto di quello stato, Piccoli spiega il Mediterraneo da un angolo remoto della costa di quel mare. Per la prima volta con la gente che guardava il chiosco del mercato coperto ho visto la mia città letta come città, come luogo di tutti, senza retorica, senza tentativi di rivalutazioni di dittatorelli latinomediterranei. Era letta per quel che era: una città della provincia italiana.
Quel chiosco è unico, ma non è superiore né inferiore ad un chiosco bar sul lungomare di Taormina, di Viareggio, di Nizza, di Barcellona. Il sindaco di Giarre parlava di Latina come parlasse di Catania, di Salerno, di Livorno. Parlava di una città italiana tra le città italiane.
Aveva ragione Lucio Dalla: “l’impresa eccezionale è essere normale”.
Per la prima volta fuori dalla mia città non mi hanno chiesto “se eravamo fascisti”. Vi par poco, a me tanto per via che i dittatori li odio, i servi dei dittatori peggio.
Latina per Latina, mi sono sentito italiano. A me basta.

prima pagina del 27 gennaio

venerdì 23 gennaio 2009

Storie di antica cortesia: il triangolino Rai

di Maria Corsetti



Spiegare a ragazze nate con il telecomando in mano la televisione in bianco e nero, lo schermo che ci volevano cinque minuti prima che partisse, la pubblicità che non interrompeva i film? Non è impossibile, in qualche modo qualche film in bianco e nero l'hanno visto, quindi possono ragionare per analogia, la pubblicità che non interrompe i film funziona come al cinema, lo schermo che ci vogliono cinque minuti è un po' come un motore diesel. Sembra strano, ma la cosa che proprio queste ragazze – maturande dell'istituto Manzoni – non riescono a figurarsi è quel triangolino bianco che appariva sullo schermo in basso a destra per avvertire che sull'altro canale stava iniziando un programma. Sanno per ipotesi che una volta esistevano solo la prima e la seconda rete Rai, accettano la cosa come una bizzarra anomalia dell'antichità, ma che si potesse essere talmente cortesi da segnalare il momento opportuno per cambiare canale è una circostanza che non riescono neanche a figurarsi per astratto. Sono ragazze nate all'inizio degli anni '90, cresciute tra spot e televendite, "zapping" è una delle prime parole che hanno pronunciato. Sanno perfettamente che una volta c'era Carosello, ma non riescono a comprendere perché ci fosse qualcuno disposto a pagare per mandare in onda la pubblicità al di fuori di una trasmissione. E assolutamente incomprensibile che si aspettasse Carosello proprio per guardare la pubblicità e non per approfittarne per alzarsi e bere un bicchiere d'acqua, andare in bagno, mettere il pigiama. C'è però da rilevare che anche queste ragazze vivono la loro nostalgia: altroché Gormiti e Winx, mi dicono, Haidy e Lady Oscar, quelli sì che erano cartoni animati! Provo a rilanciare con Topo Gigio, la reazione è stile visita al museo egizio, allora mi gioco Speedy Gonzales, nessuna reazione. Mi salvo con Raffaella Carrà e Mike Bongiorno: loro sono senza tempo, cavalcano le generazioni senza timore di essere dimenticati.

mercoledì 21 gennaio 2009

Renzo Lonoce, per me un maestro

Maria Corsetti

É stato uno dei primi ad incoraggiarmi a continuare sulla strada del giornalismo e questa cosa non l’ho mai dimenticata. Quando sei all’inizio, quando ti proponi in un mestiere che impari sul campo è difficile capire la direzione. Renzo Lonoce non si faceva pregare per un consiglio, era sempre pronto per una chiacchierata che era al tempo stesso una lezione. Stava seduto alla sua scrivania, lavorava sempre, non l’ho mai visto distratto. Quando capitavo nella redazione de Il Tempo passavo a salutarlo, entravo nel suo ufficio un po’ titubante: alzava gli occhi con fare severissimo, per guardare in faccia chi l’aveva disturbato e poi sorrideva, “dai siediti, raccontami come vanno le cose”. Mi chiese una foto del carosello storico di Cori: gliene portai anche una mia e fu proprio quella che andò a finire sul giornale. Mi metteva in guardia rispetto ad alcune realtà, lo faceva senza parlarne mai male. Non andava volentieri alle conferenze stampa, aveva fior di collaboratori che potevano farlo. Gli chiesi se poteva venire a una che avevo organizzato per la Federlazio, fu il primo ad arrivare. Fu una testimonianza importante per me che da poco lavoravo presso l’associazione delle piccole e medie imprese. A chi diceva che non c’è spazio nel mondo del giornalismo, a chi mi consigliava di smetterla ancora prima di iniziare dentro di me opponevo quel sorriso divertito e severo che mi faceva i complimenti per come scrivevo. Ovviamente tutto questo non era esente da critiche. Sempre costruttive, sempre sotto il segno della stima. Che mi onorava e che continua ad onorarmi. Ieri mattina ho saputo che se ne è andato. E non averlo potuto salutare per me è stato un grande dolore.

Latina Ambiente, 40 operai ancora da stabilizzare





Alessia Tomasini


Nuovo anno e nuovi ostacoli da superare nel rapporto che lega il Comune di Latina alla società che gestisce la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti sul territorio. Presto la Latina Ambiente dovrebbe presentare il nuovo piano economico finanziario. Sul documento economico della partecipata dal Comune al 51% si sono, da sempre, scatenate le ire non solo dell’opposizione ma della stessa maggioranza di centrodestra. Il punto sul quale ritorna ad alimentarsi la polemica è la “promessa” della Latina Ambiente di assorbire i lavoratori, circa 62 che erano a rischio dallo scorso anno. Secondo quanto pattuito in accordo al sindaco di Latina, Vincenzo Zaccheo, entro febbraio 2009 tutti gli operai dovevano essere stabilizzati. Ad oggi i numeri parlano da soli. Venti persone sono state assunte. Le restanti aspettano il primo febbraio, giorno in cui oi contratti dovrebbero essere depositati. Sul tavolo delle trattative circa un anno fa, e di fronte ai malumori suscitati da un piano economico e finanziario di oltre di 20 milioni ed 800 mila euro, c’erano i lavoratori sul piede di guerra per ottenere il rispetto delle promesse avanzate dal sindaco di Latina, poi l’ordinanza di Zaccheo che, dopo aver incontrato i rappresentanti sindacali dei 62 precari a rischio licenziamento, aveva salvato la situazione sul piano occupazionale e formale. Oggi sembra che la storia sia destinata a ripetersi. La differenza rispetto al 2008 è che gli uomini del centrodestra pontino non sono disposti a firmare il documento economico, che certo non gioca al ribasso, a scatola chiusa. Sembra che la proposta si aggiri, di nuovo, su una cifra da capogiro su cui il Comune dovrebbe, e senza essere stato interpellato agire con proprie risorse cercando di abbassare la tariffa che pesa tutta e ancora sulle spalle dei cittadini. Questo significa che si apre l’anno dei miracoli almeno per quanto riguarda la Latina Ambiente. Prima si dovrà chiarire la posizione dei lavoratori, poi mettere pace su bollette sempre troppo alte ed infine, forse, votare il piano economico finanziario con la clausola di un Comune che non ha risorse da versare a pioggia nelle casse della partecipata.

Pietro Piccoli, le radici d’Occidente






Lidano Grassucci


Quando Pietro Piccoli mi ha portato il catalogo sono rimasto impressionato, per la grandezza. Un pittore si misura? Ho incontrato per la prima volta l’arte di Pietro Piccoli nella seconda metà degli anni ‘80. Cominciavo a fare il giornalista e mi avevano incaricato di seguire l’amministrazione provinciale di Latina. Dentro al palazzo quadro e squadro che ospita quell’amministrazione, residuo della fondazione della città (anni ‘30), l’unica cosa viva che mi accolse erano i ritratti dei presidenti dell’amministrazione di Piero Piccoli. Disegni semplici, senza retorica ma che diventavano solenni, importanti. In genere i ritratti “mortificano” gli artisti, invece Piccoli trasmetteva una sorta di agio a chi guardava, erano testimonianza. Parto da qui, per spiegare le ragioni per cui sono partito dalla grandezza del catalogo, perché l’artista del catalogo ha una “storia”, una “personalità” non ordinari e una produzione fertile.
I ritratti dei presidenti li ho letti d’istinto, senza sovrastrutture. Un po’ come ti viene da leggere i quadri dei presidenti americani che ci sono diventati familiari, comuni per via di film, telefilm. Poi ho cominciato ad interessarmi d’arte con un altro occhio per via di una sfida di testa e di occhi con Sabino Vona. È stato Sabino a insegnarmi di arte, a insegnarmi a leggere l’arte.
Ed ecco di nuovo Pietro Piccoli che diventa altro, i suoi paesaggi “nascono” da pennellate frenate. Pietro immagina come andrà a finire la sua traccia sulla tela prima di darla. Dipinge di testa che significa avere mestiere, conoscenza, percorso pittorico. I paesaggi marini sono immobili fermi in quel Mediterraneo dove la storia non ha bisogno di velocità, è, semplicemente è. Le imbarcazioni ferme tra acqua e mare potrebbero stare in un porto pieno di turisti dell’estate scorsa, o in un porto mercantile pieno di mercanti greci, romani.
Piccoli è il pittore del tempo fermo di questo mare che sta in mezzo alle terre, che non separa ma unisce. La pittura nasce nel tratto del pennello, sembra che tra la testa dell’artista non ci sia mediazione, manipolazione.
Il Mediterraneo è sabbia, colori tenui e non a caso: questo è il mare in cui non ti perdi anche se sei perduto. Le barche di Piccoli sono senza uomini, i paesaggi sono senza uomini perché gli uomini nel Mediterraneo sono ovunque. Piccoli li dipinge non dipingendoli: i suoi uomini sono quelli che hanno fatto le barche, hanno costruito i paesi appiccicati all’ultimo pezzo di terra prima del mare. Anche le vele non gonfiano, perché il viaggio è sempre domestico, è sempre familiare.
I colori si sovrappongono per linee di pennello e si fanno forma.
Ecco le barche sono colore, colore è il mare, colore sono le case. Il Mediterraneo è colore e il colore è umano è il filtro dell’occhio del mondo.
Ad una prima lettura mi sono sentito solo davanti a questi paesaggi, quasi l’umano era cacciato, cancellato. Poi mi sono sentito avvolto. Per chi è Mediterraneo è normale “indossare” città così piccole da essere su misura, a misura mia se ci abito io, a misura del vicino se è lui a viverci.
Piccoli dipinge città, spiagge, mari che si indossano.
Perché piace agli americani, perché lì le città scivolano lungo la 66, scivolano dentro la prateria, scivolano nelle luci metropolitane.
I paesi di Sicilia, di Sardegna, del Lazio sono come fiori di un unico prato.
Piccoli ha tecnica pittorica, è figlio di una scuola, ha buoni maestri, ha mano, ma ha l’istinto del colore.
Alcune immagini “ferme” hanno la stessa staticità dei Macchiaioli. Come quelli sono testimonianze di mondi che “transitano” verso la loro fine.
Le luci artificiali sono i nemici della pittura di Pietro Piccoli. Lui ha visto il mondo nella luce che danno sole e mare. Pietro da luce anche alle nature morte, sono oggetti posti alla luce.
Hanno paralato di pittura mediterranea, consentitemi di dire “pittura” e basta. Perché il Mediterraneo non è chiuso, il Mediterraneo è una porta aperta, non chiusa.
Al termine del catalogo ci sono una serie di tele sul tema della sedia, una serie di sedie che “ospitano” non umani. Qui il discorso sull’umano è lo stesso delle barche, è la futtura delle cose la cosa più umana, per piccoli gli uomini sono quel che fanno. Pietro Piccoli dipinge in maniera iperbolica l’homo faber, l’esatto contrario dell’homo finanziario che ha ucciso le economie mondiali (del resto non si potrebbe dipingere la finanza). Le sedie sono testimonianza umana, sono la parte femminile del maschile che sono le barche. Nei paesi della costa gli uomini vanno per mare, con le barche, le donne aspettano sedute nelle sedie. Il maschile e il femminile dello stesso mondo. Sedie che, per chi è vissuto, dentro questo mondo non potevano che essere quelle con la seduta di paglia. Sono, quelle sedie, il ritratto delle nostre nonne, della nostra civiltà povera ma rigorosa, rispettosa pulita.
Una pittura nostalgica? No, anzi brillante, pulita, aideologica. Una pittura di testimonianza, il catalogo è un Gran Tour costiero, marino senza una certa alterigia culturale che avevano i romatici del nord. Pietro Piccoli dipinge il Mediterraneo da dentro.
Per questo affascina gli americani, perché è il colpo violento alla pancia del mondo nuovo che parte da dove è nato il mondo. Piccoli dipinge le radici d’occidente.

prima pagina del 22 gennaio

Il pilota Renzo




Lidano Grassucci


Quando non c’era stato ancora il baby boom dei giornalisti in questa provincia, a cui (ahimè) ho contribuito non poco, questo mestiere “selezionava”. Sono della generazione di giornalisti successiva a quella di Renzo Lonoce. Anzi noi che venivamo a scrivere dai movimenti studenteschi degli anni ’70 volevamo un po’ rompere il giornalismo “precedente”. Insomma volevamo fare nel mestiere quel che avevamo fatto a scuola. Quindi le visioni del lavoro erano differenti e tali restano, ma Renzo era un collega di calibro, un signore. Credo che abbia interpretato al meglio un certo moderatismo maggioritario nella nostra comunità. Ha dato forma e ha raccontato la prima piccola borghesia di questa provincia. Era elegante nei modi e nello scrivere, aveva uno scrivere preciso puntuale, maniacale. Aveva passione anche se non lo dava a vedere. Cominciò a raccontare un mondo che oggi è storia, ma comprese anche i travagli di questa comunità nei grandi cambiamenti degli anni novanta e dell’inizio del nuovo secolo. Un punto di vista originale che sentiva la pancia di questa provincia. Oggi chi si accinge a questo mestiere alla seconda riga scritta si sente Giampaolo Pansa, anzi è in grado già di spiegargli come si scrive un articolo.
Quelli della mia generazione avevano un’altra visione del mondo, non condividevano le scelte, ma non ci sentivamo in grado di far altro che imparare. Imparare la conoscenza delle persone, della comunità, delle sue sensazioni profonde. Ho sempre avuto difficoltà a leggere Il Tempo per via del fatto che a casa mia leggevano Il Messaggero e non mi trovavo con i caratteri, poi mettici ragioni ideologiche, ma attraverso Renzo e Romano Forte ho imparato a leggerlo e sono stati loro che mi hanno fatto capire le ragioni di chi era da me distante. E chi fa questo mestiere deve avere idee forti, deve avere una visione sua del mondo, ma deve essere curioso delle ragioni degli altri.
La scomparsa di Renzo Lonoce è un buco importante per chi fa il mio lavoro, è una testa in meno nel leggere la comunità pontina. Non avrei mai fatto un giornale come lo facevi tu, come c’è a chi piace l’Alfa e a chi la Bmw ma eri un grande pilota.
Ciao Renzo.

martedì 20 gennaio 2009

I giovani vecchi a sinistra

Lidano Grassucci


A sinistra risponde silenzio. Leggo di Visari che dichiara: “prima il programma poi i nomi”. Una cosa nuova, originale. Non l’avevamo mai sentita.
Ma la sinistra ha costruito qualche cosa? Chi ricorda l’investimento fatto su Erasmo Fiumara, candidato alla provincia, contro la destra. E Antonio Costanzo, candidato contro Finestra in comune a Latina. Ottime persone, ma la classe dirigente nuova? Amodio Di Marzio?
Il sindaco di Gaeta Raimondi aveva rotto il muro dell’ipocrisia, la sua era una proposta discutibile, ma aveva un senso politico: lui era il vincente in una sinistra che aveva sempre perso, lui è nuovo in una nomenklatura catto-comunista. Non a caso non gli hanno risposto. La logica della sinistra da 10 anni a questa parte è quella di “massimizzare le perdite”, l’ipotesi di candidarsi per vincere non esiste, è eliminata a priori.
Visari da una parte e De Marchis dall’altra dovrebbero essere, invece, i più interessati a uscire dalla logica della “massimizzazione delle perdite”: nello stagno che si riduce loro non berranno mai, o li lasceranno bere solo quando ci sono in vista i leoni.
Invece? Sono i meno originali del panorama, dicono cose (politicamente corrette, per carità) ma inutili.
Chi si ricorda il programma per la provincia di Bartolomeo, di Fiumara?
Chi rammenta il programma di Veltroni?
Ha vinto Obama, non il suo programma (per altro ipergenerico), ha vinto l’idea di un presidente nuovo, giovane, audace, che dà speranze agli americani.
De Marchis e Visari debbono porre al partito tutto la questione generazionale, prima e sola. Sono vecchi-giovani. Alla sinistra pontina serve un capo, un leader.
Quando ci fu la scissione socialista di Palazzo Barberini, i giovani socialisti erano preparati e avevano grandi progetti nel nuovo partito socialista democratico. Ma quella cosa non sarebbe stata nulla se a capo non ci fosse stato Giuseppe Saragat.
La politica è una cosa seria, bisognerebbe avere l’umiltà di studiare, capire.
Alla sinistra pontina serve un leader giovane e brillante.
Gli ex Dc che stanno nel partito lo hanno capito e mandano avanti Moscardelli, la sinistra ha abdicato.
Ma che programma, diteci chi è il vostro candidato o lassate perde, non è pe voi, continuate a occuparvi di consigli di amministrazione.

prima pagina del 21 gennaio

domenica 18 gennaio 2009

sabato 17 gennaio 2009

pagina 1 del 18 gennaio 2009

Polenta a volontà


Roberto Campagna

Dicevano i vecchi pastori dei Monti Lepini: “Se la donna sa fare la polenta è una brava cuoca”. Ma erano proprio loro grandi polentari, quelli che con maestria sapevano far cadere a pioggia la farina in acqua bollente salata; la facevano cadere lentamente: quel tanto per assorbire l’acqua. Lasciavano poi passare qualche minuto e, visto il grado di assorbimento, aggiungevano altro farina mescolandola continuamente per non avere grumi. E sapevano con precisione quando era cotta: quando si stacca dalle pareti. Bravi polentari, ora, sono i sermonetani, in particolare quelli che la cucinano in occasione della sagra. Sagra che, come ogni anno, si svolge oggi dentro il centro storico. E se in passato veniva condita in vari modi: con i broccoletti, con i fagioli, con il baccalà, con i funghi, con le lumache e con la ricotta. Sì, con la ricotta. Piatto unico, questo piatto apparteneva alla cucina povera dei pastori lepini. Non ci voleva una particolare abilità per prepararla: una volta cotta, la polenta veniva stesa su una spianatora e coperta, poi, con un strato di ricotta schiacciata, ammorbidita con un po’ d’acqua calda e salata. Oggi viene servita quasi esclusivamente con un sugo di salsicce e costatelle. E proprio così viene offerta alla sagra. Sermoneta è una delle capitali italiane della polenta. Si dice che Guglielmo Caetani, tornato nel 1504 dopo un lungo esilio di cinque anni al quale fu costretto da papa Alessandro VI, portò con sé un sacchetto di strani semi, chiamati “mahiz”. Li fece seminare sui suoi terreni e i raccolti furono davvero abbondanti. E se all’inizio utilizzò la farina di granoturco nella preparazione di una pietanza per i prigionieri del suo castello, in seguito la polenta diventò il principale piatto dei poveri e dei pastori della zona e di quelli che, durante i mesi estivi, scendevano dall’Alto Lazio e dall’Abruzzo alla ricerca di pascoli abbondanti. A questi pastori e alla popolazione sermonetana, il giorno della festa di Sant’Antonio Abate, protettore degli animali, veniva offerto un piatto di polenta condita con sugo di carne di maiale. Questa antica usanza ancora resiste e in occasione, appunto, delle festa di Sant’Antonio Abate, si tiene dal 1997 la sagra della polenta. Quella che offrono a Sermoneta è uguale alla polenta di Guglielmo Caetani: è preparata con farina fresca, dal colore giallo acceso, ha un profumo fragrante e un gusto leggermente dolciastro.

Sciogliete Terracina Ambiente



Francesco Avena


Terracina Ambiente, la storia della società mista che gestisce il servizio di raccolta e trasporto dei rifiuti finisce alla Procura della Repubblica e alla Corte dei conti. Sono queste le mosse del gruppo consiliare del Pd, che insieme a quello dei Verdi ha deciso di presentare per la prossima settimana un esposto alla Procura, da cui si vuole sapere «se fin dall’avvio della procedura di aggiudicazione del servizio alla società mista – chiede il Pd - siano rilevabili profili di responsabilità penale a carico dei soggetti a vario titolo coinvolti». Dalla Corte dei conti per capire se ci siano gli estremi per «rilevare profili di danno erariale». La minoranza intende anche convocare un consiglio comunale con un punto all’ordine del giorno: lo scioglimento della Terracina Ambiente Spa. Una storia piena di contraddizioni quella della società mista, con il 51% detenuto dalla parte pubblica e 49% dall’Aspica. I nodi irrisolti della gestione del servizio di pulizia urbana sono molti e di fatto non garantiscono a Terracina una raccolta efficiente come pure investimenti mirati a migliorare il servizio. Si parte dalla nascita (ufficialmente il 1 dicembre 2007) della società partecipata, sorta dalle ceneri del rapporto conflittuale con la Slia, la vecchia ditta che svolgeva per il Comune di Terracina il servizio di raccolta rifiuti. La società accumula perdite d’esercizio importanti. Nel 2007 la perdita raggiungeva i 750mila euro, il 30 giugno 2008 si era gonfiata fino a toccare quota 1milione 53mila euro. Tutto ciò basterebbe a dichiarare «il fallimento della Terracina Ambiente» evidenzia il Pd, ma si deve aggiungere che «con due distinte delibere l’amministrazione comunale di Terracina ha provveduto all’aumento dell’imposta Tarsu rispettivamente del 20 e del 25%. Inoltre il consiglio comunale ha approvato una sanatoria per la stessa Tarsu» conclusa la scorsa estate. Una contraddizione più volte manifestata dai gruppi consiliari della minoranza, che rimproveravano all’amministrazione l’incoerenza di aver aumentato considerevolmente la tassa sui rifiuti, riconoscendo più tardi indispensabile ricorrere al condono, tanto era elevato il tasso di evasione. A pesare come un macigno sulla credibilità della Terracina Ambiente altri fattori, come il Piano Santoro per l’inizio della raccolta differenziata, approvato «in assenza del numero legale e senza la presenza della minoranza – accusa l’opposizione - tanto da indurre i consiglieri comunali del Pd e dei Verdi a impugnare innanzi al Tar tale deliberazione affinché ne venisse dichiarata la nullità». Altro mistero da chiarire quello del sito di compostaggio di «Le Morelle», che l’amministrazione continua ad affermare essere in possesso del Comune. «Formalmente di proprietà di Slia» ribadisce il Pd. Infine le dichiarazioni dell’ormai ex presidente della società Alfonso Cangiano, dimessosi in blocco con gli altri esponenti di parte pubblica a dicembre. «Ben venga un commissario o un giudice – aveva affermato il presidente Cangiano prima di dimettersi - che verifichi se si è avuta una gestione più o meno poco accorta o effettivamente ci troviamo di fronte ad un appalto di gran lunga sottostimato. E se sottostimato di quanto?» Queste dichiarazioni avevano aperto il dibattito fino alle dimissioni di presidente e consiglieri che a tutt’oggi non si è ancora provveduto a sostituire. Sul possibile interessamento della Latina Ambiente ad assorbire la società terracinese, si apre un altro interrogativo. La minoranza ha tirato le somme, la Terracina Ambiente ha dimostrato di essere «un vero e proprio fallimento». La prossima settimana partiranno gli esposti alla Corte dei Conti e alla Procura della Repubblica.

Lunga vita a Re Riccardo




Lidano Grassucci



Politica è governo della città, è l’arte più nobile che la civiltà d’occidente ha creato. Il resto è funzione, il resto è ordinario. La politica è immaginare il domani, scegliere per costruirlo, è sentire la città. Per questo abbiamo scelto di affidare la politica solo, soltanto, al “popolo sovrano”.
Dico questo perché al Consorzio di Bonifica c’è il rischio che la “politica” venga spodestata dal moralismo, dall’ipocrisia moralista. Sono elettore del consorzio, per via di quelle cose che mi vengono dalla mia natura (mai rinnegata) che è contadina, e ho votato come presidente Riccardo Spagnolo. L’ho votato e lo rifarei, per me la vendita dell’ex Orsal è stata scelta saggia e opportuna. Dice, ma i giudici lo hanno rinviato a giudizio? Sì, ma non lo hanno ancora condannato. E questa è una. Ma i giudici sono assolutamente incompetenti sulla opportunità o meno di cedere quel terreno, su quello possiamo mettere bocca solo noi consorziati. Il giudice deve vedere se al consorzio abbiamo rispettato le leggi e basta. Dice, ma poteva vendere al Comune di Latina e non ad un privato? Perché siamo in una economia socialista? Siamo nella Russia sovietica?
Riccardo Spagnolo aveva solo un dovere: vendere a chi pagava di più e a chi pagava prima.
Se ha fatto questo, ha fatto bene.
I magistrati facciano quel che debbono ma noi, i consorziati, abbiamo eletto Riccardo Spagnolo presidente e lui deve fare il presidente.
A meno che non si faccia un legge nuova in cui si dice che “sovrani sono i magistrati”, che “sovrano è il sospetto”.
Agli amici della Coldiretti ricordo l’ingiustizia che da anni perseguita Gianni Cosmi, uno dei leader storici degli agricoltori pontini, che ad ogni vigilia di tornata elettorale che potrebbe vederlo protagonista si vede arrivare una iniziativa giudiziaria. Che è improcrastinabile in quel momento, quando dimenticata il giorno dopo.
C’è stata una grande colpa di democristiani e socialisti durante il golpe giudiziario del ’93, non aver difeso la politica ed i propri esponenti.
Personalmente intitolerei una piazza a Craxi, su Di Pietro ho problemi di stomaco.
E chiudo come faceva Robin Hood: lunga vita a Re Riccardo.

giovedì 15 gennaio 2009

pagina 1 16 gennaio 2009

pagina 1 15 gennaio 2009

Haupt meglio di Pfizer


Teresa Faticoni

I tedeschi arriveranno ufficialmente a Borgo San Michele il 3 febbraio. In quella data sarà effettiva la cessione dello stabilimento Pfizer alla Haupt Pharma che ieri in Confindustria si è presentata. Ha presentato i dettagli del progetto industriale che ha intenzione di mettere in campo nel sito di via Monti Lepini che il primo gruppo al mondo nel settore farmaceutico si appresta a lasciare. L’incontro di ieri è stato puramente informativo, perché la procedura della legge 428, quella sulla cessione di ramo d’azienda, non prevede il coinvolgimento nella trattativa delle organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori. La Haupt Pharma è quarta nel rank mondiale delle aziende produttrici per conto terzi. Si tratta di una società costituita nel 1937 e negli anni si è strutturata sempre attraverso acquisizioni di stabilimenti, alcuni anche importanti da Wyeth e Bristol. Attualmente ha 8 stabilimenti sparsi nel mondo di cui uno in Giappone e uno in Francia con un totale di oltre 2.200 dipendenti. Con l’acquisizione della fabbrica Pfizer, la più importante fatta dal gruppo negli ultimi anni, la Haupt mette piede in Italia e ha intenzione di rimanerci e di starci anche bene. Il piano industriale prevede infatti un accordo commerciale, spiegato ieri alle sigle sindacali tramite una serie di slide esplicative, in base al quale per i prossimi 4 anni saranno mantenuti gli attuali volumi produttivi e le produzioni a marchio Pfizer. Di più: la mission aziendale prevede non solo la produzione di farmaci per conto di grandi multinazionali, nel qual caso per la Pfizer, ma anche l’espansione in termini di prospettiva futura. La Haupt Pharma vorrebbe caratterizzarsi come fornitore di servizi per attività come le analisi cliniche e lo sviluppo di prodotti Una produzione avanzata, quindi, di una società solida e importante che potrebbe anche prevedere l’espansione dell’organigramma. Ora sono impiegate in via Monti Lepini 473 persone, che passeranno tutte in blocco alla nuova azienda. L’accordo con il colosso americano prevede la stabilizzazione dei lavoratori per i prossimi due anni. Su questo punto il moderato ottimismo delle sigle sindacali si è un po’ raffreddato: Cgil, Cisl, Uil e Ugl hanno chiesto che siano portati a 5 gli anni di produzioni Pfizer e a tre gli anni di stabilizzazione del personale. La Haupt, con ferrea logica teutonica, ha risposto con l’annuncio di 2 o 3 milioni di euro di investimenti all’anno espandibili a seconda delle commesse. Per tradizione, però, l’implementazione alla Haupt è sempre avvenuta dopo il primo lustro di attività nelle nuove realtà. «Abbiamo espresso moderata soddisfazione – ha dichiarato Luciano Tramannoni, della Femca Cisl a margine del vertice di ieri -, abbiamo riscontrato una solidità dell’azienda, che è leader tra quelle per conto terzi. Auspichiamo relazioni sindacali e industriali avanzate». «La Ugl Chimici - fanno eco Luigi Ulgiati e Armando Valinai rispettivamente segretario nazionale e provinciale della categoria - pur apprezzando quanto emerso della nuova azienda e nella consapevolezza di non far parte più di un network importante come quello Pfizer, ha espresso tra le varie richieste, maggiori garanzie attraverso un accordo commerciale tra Pfizer e Haupt Pharma e un patto di stabilità per i lavoratori di più lunga durata».

Il foco di Zaccheo e Cusani

Lidano Grassucci


S’i fosse foco ardarei ‘l mondo, si fosse acqua i’ l’annegherei.
Partiamo da qui, da Cecco Angiolieri, dalla lingua che nasce per dire: ma cosa accade? Leggiamo di classi dirigenti delegittimate, di scontento diffuso. Poi? Il sindaco di Latina è l’ottavo sindaco per popolarità d’Italia, il presidente della Provincia ci arriva tacca tacca, come si dice dalle mie parti.
Che ci sia una delegittimazione non di chi è raccontato ma di chi racconta? Non è che noi giornalisti raccontiamo la superficie facile del mondo e non il mondo?
Zaccheo gode di una pessima pubblicistica, ma di ampi consensi.
Lo stesso vale per Cusani. Allora a chi parlano i giornali, di cosa parlano?
La vicenda dell’ex Orsal e del Consorzio di bonifica è vecchia, da pensione anche per Brunetta. Tranne per i giornali e i giornalisti che dimenticano di specificare che, nelle more, sia Riccardo Spagnolo sia Guido Maria Di Fazio sono stati rieletti dai consorziati.
Per dirla meglio: gli interessati ritengono che il presidente ed il suo vice abbiano fatto gli interessi dell’Ente.


Ho letto ieri mattina su Il Corriere della Sera un interessante articolo di Bernard Henry Levì. Racconta della differenza tra i “pro Palestina” che stanno al sicuro nelle capitali europee e i palestinesi che stanno in Palestina. Moderati i secondi quanto radicali i primi. Insomma pronti alla pugna con il sangue altrui.
Così i giornalisti nostrani diventati estremisti della morale altrui, quanto i cittadini sono pragmatico, realisti.
La realtà è più complessa dei facili giudizi dei commentatori che, al caldo delle redazioni, spiegano il freddo lungo i canali.
A Parigi sono eroi, ma muoiono quelli che stanno a Gaza. A Roma sono eroi ma sono i bimbi ebrei dei villaggi vicino a Gaza a conoscere i missili degli estremisti.
Quando chi scrive, chi si incarica di raccontare la comunità, sbaglia clamorosamente il tiro non è diverso dal chirurgo che sbaglia una operazione, da un poliziotto che eccede nell’uso della forza, da un giudice che condanna un innocente.
Il sondaggio de “Il Sole 24 ore” sul gradimento agli amministratori è uno schiaffo a tanta ipocrisia.
Magari se, come giornalisti, cominciamo a farci qualche domanda, se cominciamo a coltivare il dubbio... Mi rendo conto che diverremo liberali, ed essere liberi per se e per gli altri è fatica, ma forse diverremo più credibili.

martedì 13 gennaio 2009

Dai Lepini alle Alpi cantando “Marinella”

Maria Corsetti

Ho conosciuto le canzoni di Fabrizio De André per via indiretta. Era fine agosto del ’79. A Cori avevano organizzato un viaggio in Val D’Aosta. Si partiva dai Lepini di sera con uno scuolabus e si tirava dritto fino alle Alpi. Lo scuolabus è concepito per ospitare bambini delle scuole elementari su brevi tragitti. Se non proprio adulta, comunque stavo per frequentare il quinto ginnasio. Proprio a misura di scuolabus non ero. E non lo erano neanche gli altri. Però siamo arrivati lo stesso in Val D’Aosta. Per farci passare il tempo Ezio ci faceva cantare. Una sorta di karaoke primordiale: un cartellone con scritte le strofe ed Ezio che con la bacchetta ci indicava il testo da seguire. Indimenticabile Marinella in versione ideologica: “Questa di Marinella è la storia vera, lavava i piatti da mattina a sera….” Continuava con lui che decise di farne una schiava e non so che altro. Ecco, per me questa era Marinella. La realtà è che ero ferma a “Piange il telefono” di Modugno, gli anni delle medie erano passati ascoltando Il gatto e la volpe di Edoardo Bennato, il quarto ginnasio – il passaggio alle superiori negli anni ’70 rappresentava una specie di iniziazione – era trascorso sotto il segno dei lucidalabbra alla fragola e alla menta e i pupazzetti della Hollie hobby, sintomo chiarissimo del precoce tramonto della rivoluzione del ’77.
In poche parole: Fabrizio De André non sapevo neanche chi fosse. In compenso come potevo non adorare Dori Ghezzi, bella e bionda come una Barbie, con gli occhi azzurri e sorridente, che cantava insieme a Wess e che vedevo sempre in televisione.
Così, mentre stavamo in Val D’Aosta, arrivò la notizia del rapimento. Per me avevano rapito Dori Ghezzi e Fabrizio De André, non il contrario. Pensandoci bene quel De André lo avevo visto e mi sembrava un po’ bruttino vicino a lei.
Nonostante il rapimento nessuno mi disse che Marinella non era un’invenzione di Ezio. E devo ammettere che mi è rimasto quell’imprintig e quando mi capita di ascoltarla penso sempre allo scuolabus che ci scariolava da una parte all’altra della Val D’Aosta, Monte Bianco compreso, con funivia sospesa nel nulla, cima innevata e gente che sciava ad agosto.
Ezio leggeva Il Male: che giornale enorme. Propinava una satira durissima, come solo in quegli anni si poteva, prima di quel perbenismo rivoltante che ha cancellato con un colpo solo libertà di pensiero e pantaloni a zampa di elefante sostituendoli con yuppies e Milano da bere.
Leggendo Il Male – non so se era proibito ai quattordicenni, ma io ho sempre letto tutto quello che mi è capitato tra le mani – scoprivo un mondo che disprezzava i lucidalabbra alla fragola e le Hollie hobby. Dissacrava il papa, un allora giovanissimo Wojtila, lo metteva in copertina, ciabattoni e camicia hawaiana, che commentava “Col cazzo che col comunismo mi facevo la piscina”. Da allora Giovanni Paolo II a me non mi ha mai fregata, ho sempre in mente quella vignetta insuperabile.
E De André che fine ha fatto? L’ho trovato qualche anno più tardi, girando la manopola della radio. Sapevo chi era, il rapimento e la liberazione quattro mesi più tardi avevano fatto davvero tanto rumore. “Re Carlo tornava dalla guerra lo accoglie la sua terra cingendolo d’allor”, il primo folgorante incontro con un testo licenzioso.
Dopo aver pascolato tra Claudio Baglioni e Franco Simone e i loro lamenti amorosi, finalmente qualcosa di nuovo. Qualcuno che aveva altre argomentazioni, e così Bocca di Rosa e la Guerra di Piero. Per rimanere come vuota, senza pensieri sulla melodia di Via del Campo. Ancora oggi la mia preferita.

pagina 1 del 13 gennaio

Italia, crisi generazionale

Lidano Grassucci



“Non insegnate ai bambini la vostra morale è cosi stanca e malata, potrebbe far male”. Sono parole di Giorgio Gaber. Parole che mi sono apparse davanti quando mio figlio ha osservato con fare interrogatorio: “tu dici di essere socialista, ma quando studio a scuola i paesi che si dicono socialisti non si vota mai”. Beccato, cosa gli rispondo.
Incontro Emanuele Bianconi alla presentazione di un libro dell’Ater (l’istituto case popolari), osserva: “qua ci vorrebbe qualcuno giovane, nuovo”.
In Spagna governa gente che ha poco più di 40 anni. La ministra francese, Rachida Dati, che dopo 5 giorni dal parto è tornata al lavoro è nata nel ’65, ha 44 anni.
L’altro giorno parlavano del nostro paese Andreotti, Macaluso, e Cossiga. Parlavano dottamente a Porta a Porta, ma del passato. Erano cose sentite e risentite, cose finite.
Rachida Dati è contemporanea, decisa, anche cattiva. Ma è viva, ha figli non nipoti.
Lei ha rotto un tabù, è innovativa. Quando pensavano la società Andreotti, Macaluso e Cossiga c’erano le mondine, al cinema davano “Poveri ma belli”, erano rare le macchine per scrivere e la radio era un lusso.
L’Ater è guidata da un giovane amministratore, Paolo Ciampi, che vista la difficoltà a reperire aree per l’edilizia popolare in provincia di Latina, ha deciso di acquistare appartamenti già realizzati. E’ ricorso al mercato, ha fatto una cosa che prima non aveva fatto alcuno. Ha meno di 40 anni, non ha sovrastrutture ideologiche, investe sul futuro perché ha futuro.
L’Italia è malata di vecchiume, di nostalgismo. Quando cade la prima repubblica a causa del golpe giudiziario a Latina diventa sindaco Ajmone Finestra che non è all’inizio del suo percorso politico, lo diventa con la testa rivolta al recupero della dignità della sua storia, ma era una storia (non solo sbagliata e già sarebbe troppo) passata, vecchia. E questo si è ripetuto per tanti comuni italiani e per il paese.
Il problema sta qui: noi celebriamo Andreotti, in Francia discutono di Rachida Dati che ha “testimoniato” una società che cambia. Charme Chacon, ministro della difesa spagnolo, si presenta alla cerimonia ufficiale delle forze, prima di Natale, in pantaloni, rompe gli schemi, si confrontano con il contemporaneo. Da noi? Regimental.
La crisi italiana? E’ generazionale.

Fruizione di cultura o produzione di cultura?

Maria Corsetti

Domanda per il 2009: fruizione di cultura o produzione di cultura? Sono di più quelli disposti a leggere libri, ascoltare concerti, visitare mostre, assistere a spettacoli teatrali oppure quelli che scrivono libri, suonano, dipingono e recitano? E, nel primo caso, come si fa a distinguere un buon libro da una serie di parole su foglio bianco? O un bel concerto da un'accozzaglia di note strimpellate, un'opera d'arte da una crosta e una grande recitazione da una mediocre? La prima risposta, ovvia, è quella di studiare. La seconda è quella di provare a cimentarsi con scrittura, pittura, teatro e musica. L'esercizio è fondamentale per capire. Solo chi ha studiato danza può apprezzare fino in fondo un balletto. Pochissimi faranno della danza la loro professione, ma in moltissimi potranno distinguere quello che è cultura da quello che è un normale saggio. Sotto questo profilo si può capire perché all'improvviso tante persone di Latina vanno al teatro. Perché tante scrivono e tante dipingono. La crescita della cultura avviene così. Esercitandosi, tutti. L'importante è che si abbia l'esatta percezione della differenza tra esercizio e arte.

sabato 10 gennaio 2009

prima pagina dell'11 gennaio 2009

“Sottosuolo”, viaggio nella Latina dell’arte

Maria Corsetti

Vedere un film che racconta la città dove sei nato e cresciuto, vedere i luoghi dove passi ogni giorno fa un po’ l’effetto “Uno, nessuno, centomila”, quando Vitangelo Moscarda scopre di avere una imperfezione nel volto. Glielo rivela casualmente la moglie e “Gegè” da quel giorno inizia a studiare quale è la percezione che hanno di lui le persone che ha intorno.
Che percezione può avere una persona che non ha mai visto Latina guardando “Sottosuolo”? Il lungometraggio a firma di Sebastian Maulucci, presentato venerdì pomeriggio al Teatro Cafaro, restituisce una città dal forte sapore mediterraneo: mercati, bancarelle, feste in piazza, giostre e tanta gente, strade piene. E’ una Latina che si muove, così diversa da quella immobile raccontata dagli edifici che si alzano sulla palude all’alba della sua nascita. E’ la terza Latina quella raccontata da Sebastian Maulucci. La città che viene dopo la rivoluzione idraulica e dopo quella industriale. E’ quando l’uomo ha risolto il problema del cibo e del tetto che i bisogni sono diventati più raffinati. La città che nasce dal lavoro dell’uomo e che grazie al lavoro raggiunge il benessere e ora chiede per i propri figli una vita dove si realizzino sogni che prima non si osava sognare.
C’è chi dice che Latina soffre il confronto con le due metropoli che la schiacciano: Roma e Napoli. Senza contare che fortuna è poter arrivare nella città eterna o nella nea polis in un’oretta. Pensa a chi vive in quei villaggi americani o australiani a otto giorni di macchina dal primo agglomerato urbano decente. Infatti Lina Bernardi e Nino Bernardini raccontano dei loro studi di arte drammatica, la prima a Roma, il secondo a Napoli. Se abitavano già lì stavano più comodi, se abitavano in qualche contea irlandese di qualche decennio fa stavano a spillare Guinness in un pub se gli andava bene, a pascolare le pecore se le cose si mettevano maluccio. Antonio Pennacchi il problema non se lo pone proprio: piuttosto studiate, qualsiasi cosa pensate di fare nella vita. Roberto Prosseda non fa fatica a dire che a Latina ci ha vissuto per 31 anni e non gli è mancato niente. I ragazzi della compagnia teatrale “Opera prima” si sono organizzati chiamando un regista a dirigerli, mettendo su una struttura che è forse la sala più suggestiva della città con quelle sue atmosfere da Teatro India. Gianfranco Pannone si lancia in un discorso sociologico, Giuliana Bocconcello è felice di aver fatto della sua passione un lavoro, Marcello De Dominicis racconta di quanto Martin Scorzese gli diede appuntamento. Antonio Taormina non gli sembra vero che qualcuno lo stia a sentire mentre spiega la sua zanzara e mostra le sue belle tele rivolte verso Piazza San Marco.
Ma torniamo alla città: tanto mediterranea nel centro urbano, così fredda sul mare. Sebastian Maulucci ci restituisce la bellezza delle dune d’inverno. Poi ti viene in mente che deve averne fatta di fatica per trovare un giorno in cui il cielo è grigio ed è grigio anche il lago di Fogliano.
Quando io descrivo Latina penso non tanto alla città, ma ai suoi edifici, alle sue piazze nelle prime ore del mattino, un deserto con il cielo che si illumina sempre di più. E il mare, in qualsiasi stagione sia, mi torna in mente con i riflessi del sole che brillano sull’acqua.
Sebastian mi fa scoprire i suoni di un suk e la solitudine di una sponda d’oceano del nord.
Una piccola scivolata sul luogo comune dei consumi, dell’abbigliamento e dell’immagine: ci piace comprare qualche vestito di più, forse è vero. Ma sono gli stessi negozi che si trovano in qualsiasi città del mondo.
Chi continua a parlare di Latina come di qualcosa di avulso dal mondo, forse non ha mai visto il mondo.

Haupt, quale futuro per Pfizer?





Di Teresa Faticoni

Quando la storia si rovescia: gli americani battono la ritirata e abbandonano l’Italia e i tedeschi sono la nostra salvezza. È quello che sta accadendo a Borgo San Michele, dove la multinazionale del farmaco Usa Pfizer ha deciso di mettere sul mercato lo stabilimento di via dei Monti Lepini e i teutonici della Haupt Pharma si sono fatti avanti per l’acquisto. Significa, almeno dalle notizie che circolano in queste ore febbrili ma che dovranno essere confermate negli incontri dei prossimi giorni già calendarizzati da Confindustria, che non ci saranno grosse ripercussioni per quanto attiene ai posti di lavoro e ai volumi produttivi. Certo, perdiamo un grande marchio, uno di quelli che ha fatto la storia industriale di questo territorio, che ha reso la provincia pontina il secondo polo chimico farmaceutico d’Italia. Ma nella situazione di crisi globale, i tedeschi ci danno un barlume di speranza. Secondo quanto richiesto dai sindacati, e anche in base all’impostazione voluta dalla stessa dirigenza Pfizer, si cercherà di incastrare la nuova società a rimanere a Latina per almeno cinque anni. La Haupt Pharma, società leader in Europa per produzione in conto terzi, già annovera la Pfizer tra i suoi 200 clienti di cui 25 sono le più grandi multinazionali farmaceutiche. L’azienda tedesca calza perfettamente nel contesto del mercato attuale. Stanno, infatti, scandendo a uno a uno tutti i grandi brevetti che non vengono, per i motivi più svariati, sostituiti da nuovi medicinali. Pfizer, per esempio, dopo la rivoluzione blu del Viagra, non ha più lanciato medicinali che hanno fatto il botto. Nel 2011 scadrà anche il brevetto del farmaco anticolesterolo Lipitor, il medicinale più venduto al mondo che assicura alle casse della Pfizer 13 miliardi di dollari all'anno. Quando i farmaci perdono i brevetti costano all’origine allo steso modo, ma sul mercato molto di meno. Significa che con uguali costi di produzione, le entrate si restringono. Questo è uno dei motivi delle difficoltà di Janssen, che ha chiuso il reparto Cordis appena scaduto il brevetto del piccolo attrezzo per la cardiologia e ha trasferito tutto il Irlanda mettendo in mobilità 65 persone; così è avvenuto alla Wyeth, dove ci sono in bilico 85 informatori scientifici del farmaco e un centinaio di persone impiegate nello stabilimento di Aprilia: non ci sono nuovi brevetti e quindi si razionalizza; così alla Bristol, così alla Abbott. Significa che Haupt Pharma, che fa generici, ha le caratteristiche giuste per non perdere le quote di mercato acquisite in 50 anni di matrimonio di Pfizer con la terra pontina grazie anche alle professionalità e alle competenze delle risorse umane del sito di Borgo San Michele. Ma per mantenere in piedi quello stabilimento, che occupa al momento 473 persone, ci vuole qualcosa di più. Non si pensa alla ricerca, ma a qualche cosa che possa portare allo sviluppo, per non limitarsi a mantenere l’esistente. Pfizer ha investito, nell’ultimo anno, 13 milioni di euro nel sito pontino per renderlo adeguato alla produzione di medicinali sterili. In questo modo la nuova arrivata potrà richiedere l’accreditamento presso la Food and Drug Administration, cioè potrà produrre medicinali di eccellenza da esportare in America. Significa che si può ipotizzare un’espansione delle produzioni, che al momento sono medicinali per umani e veterinari. Pfizer, nel frattempo, martedì chiarirà la questione degli informatori scientifici del farmaco. 550 esuberi pare saranno dichiarati nel comparto commerciale. Non ci saranno grandi ricadute sul nostro territorio, ma la vicenda ci coinvolge perché sono tutti iscritti a libro paga proprio a Latina. Intanto la multinazionale americana, il più grande gruppo farmaceutico del mondo, vuole acquisire un importante concorrente per migliorare il proprio stato di salute finanziaria. Secondo l’analisi del Financial Times da qui si aprirebbe un walzer di fusioni nel farmaceutico a livello mondiale che magari potrebbe investire anche la provincia pontina. Nonostante la crisi, infatti, Pfizer può contare su una notevole liquidità da immettere nel mercato, tramite la quale superare le difficoltà e rilanciare la sua immagine a Wall Street.