martedì 13 gennaio 2009

Dai Lepini alle Alpi cantando “Marinella”

Maria Corsetti

Ho conosciuto le canzoni di Fabrizio De André per via indiretta. Era fine agosto del ’79. A Cori avevano organizzato un viaggio in Val D’Aosta. Si partiva dai Lepini di sera con uno scuolabus e si tirava dritto fino alle Alpi. Lo scuolabus è concepito per ospitare bambini delle scuole elementari su brevi tragitti. Se non proprio adulta, comunque stavo per frequentare il quinto ginnasio. Proprio a misura di scuolabus non ero. E non lo erano neanche gli altri. Però siamo arrivati lo stesso in Val D’Aosta. Per farci passare il tempo Ezio ci faceva cantare. Una sorta di karaoke primordiale: un cartellone con scritte le strofe ed Ezio che con la bacchetta ci indicava il testo da seguire. Indimenticabile Marinella in versione ideologica: “Questa di Marinella è la storia vera, lavava i piatti da mattina a sera….” Continuava con lui che decise di farne una schiava e non so che altro. Ecco, per me questa era Marinella. La realtà è che ero ferma a “Piange il telefono” di Modugno, gli anni delle medie erano passati ascoltando Il gatto e la volpe di Edoardo Bennato, il quarto ginnasio – il passaggio alle superiori negli anni ’70 rappresentava una specie di iniziazione – era trascorso sotto il segno dei lucidalabbra alla fragola e alla menta e i pupazzetti della Hollie hobby, sintomo chiarissimo del precoce tramonto della rivoluzione del ’77.
In poche parole: Fabrizio De André non sapevo neanche chi fosse. In compenso come potevo non adorare Dori Ghezzi, bella e bionda come una Barbie, con gli occhi azzurri e sorridente, che cantava insieme a Wess e che vedevo sempre in televisione.
Così, mentre stavamo in Val D’Aosta, arrivò la notizia del rapimento. Per me avevano rapito Dori Ghezzi e Fabrizio De André, non il contrario. Pensandoci bene quel De André lo avevo visto e mi sembrava un po’ bruttino vicino a lei.
Nonostante il rapimento nessuno mi disse che Marinella non era un’invenzione di Ezio. E devo ammettere che mi è rimasto quell’imprintig e quando mi capita di ascoltarla penso sempre allo scuolabus che ci scariolava da una parte all’altra della Val D’Aosta, Monte Bianco compreso, con funivia sospesa nel nulla, cima innevata e gente che sciava ad agosto.
Ezio leggeva Il Male: che giornale enorme. Propinava una satira durissima, come solo in quegli anni si poteva, prima di quel perbenismo rivoltante che ha cancellato con un colpo solo libertà di pensiero e pantaloni a zampa di elefante sostituendoli con yuppies e Milano da bere.
Leggendo Il Male – non so se era proibito ai quattordicenni, ma io ho sempre letto tutto quello che mi è capitato tra le mani – scoprivo un mondo che disprezzava i lucidalabbra alla fragola e le Hollie hobby. Dissacrava il papa, un allora giovanissimo Wojtila, lo metteva in copertina, ciabattoni e camicia hawaiana, che commentava “Col cazzo che col comunismo mi facevo la piscina”. Da allora Giovanni Paolo II a me non mi ha mai fregata, ho sempre in mente quella vignetta insuperabile.
E De André che fine ha fatto? L’ho trovato qualche anno più tardi, girando la manopola della radio. Sapevo chi era, il rapimento e la liberazione quattro mesi più tardi avevano fatto davvero tanto rumore. “Re Carlo tornava dalla guerra lo accoglie la sua terra cingendolo d’allor”, il primo folgorante incontro con un testo licenzioso.
Dopo aver pascolato tra Claudio Baglioni e Franco Simone e i loro lamenti amorosi, finalmente qualcosa di nuovo. Qualcuno che aveva altre argomentazioni, e così Bocca di Rosa e la Guerra di Piero. Per rimanere come vuota, senza pensieri sulla melodia di Via del Campo. Ancora oggi la mia preferita.

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