venerdì 30 gennaio 2009

Vorrei ma non posso essere un diavolo che veste Prada

Maria Corsetti

Qualche giorno fa ho fatto parte della schiera che ha visto “Il diavolo veste Prada” in tv. Al cinema me l’ero perso. Meryl Streep: l’eccezionale per lei è la regola, i suoi personaggi sono indimenticabili. Posso immaginare sul grande schermo l’effetto che fa quel volto, familiare per averlo visto in mille interpretazioni, sconosciuto per averlo visto cambiare mille volte. Nel film la cattiveria è elegantissima. E, agli occhi di un’italiana, una donna vestita bene è meno colpevole di una vestita male. In effetti il messaggio del titolo vorrebbe dire questo: non farti ingannare, quella è tremenda. Sarà tremenda, ma non molla un secondo. Arriva prima degli altri, intuisce pericoli e opportunità, si libera senza troppi scrupoli di collaboratori poco efficienti o poco ambiziosi. Quello che tutti vorrebbero fare, ammettiamolo. Non è il Diavolo a vestire Prada, sono i nostri sogni di gloria a farlo: chi nella vita, uomo o donna che sia, non ha desiderato arrivare prima degli altri, liberarsi dei pesi morti sul lavoro, indossare capi pregiatissimi che quando te li metti già ti senti a un altro livello? Per questo il lieto fine della storia non è dato dagli occhi grandi dalla giovane apprendista diavolessa che decide di mollare la competizione per amore, ma dal fascino senza tempo di Meryl che scende dal taxi come solo una diva di Hollywood sa fare. A questo punto vestite di tailleur preso di straforo alla bancarella del mercato, borsa di Ysl acquistata a venti euro dal marocchino in piazza, scarpe scovate all’outlet e braccialetto Tennis finto Swaroski, diamoci da fare per la scalata made in Italy.

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