mercoledì 21 gennaio 2009

Pietro Piccoli, le radici d’Occidente






Lidano Grassucci


Quando Pietro Piccoli mi ha portato il catalogo sono rimasto impressionato, per la grandezza. Un pittore si misura? Ho incontrato per la prima volta l’arte di Pietro Piccoli nella seconda metà degli anni ‘80. Cominciavo a fare il giornalista e mi avevano incaricato di seguire l’amministrazione provinciale di Latina. Dentro al palazzo quadro e squadro che ospita quell’amministrazione, residuo della fondazione della città (anni ‘30), l’unica cosa viva che mi accolse erano i ritratti dei presidenti dell’amministrazione di Piero Piccoli. Disegni semplici, senza retorica ma che diventavano solenni, importanti. In genere i ritratti “mortificano” gli artisti, invece Piccoli trasmetteva una sorta di agio a chi guardava, erano testimonianza. Parto da qui, per spiegare le ragioni per cui sono partito dalla grandezza del catalogo, perché l’artista del catalogo ha una “storia”, una “personalità” non ordinari e una produzione fertile.
I ritratti dei presidenti li ho letti d’istinto, senza sovrastrutture. Un po’ come ti viene da leggere i quadri dei presidenti americani che ci sono diventati familiari, comuni per via di film, telefilm. Poi ho cominciato ad interessarmi d’arte con un altro occhio per via di una sfida di testa e di occhi con Sabino Vona. È stato Sabino a insegnarmi di arte, a insegnarmi a leggere l’arte.
Ed ecco di nuovo Pietro Piccoli che diventa altro, i suoi paesaggi “nascono” da pennellate frenate. Pietro immagina come andrà a finire la sua traccia sulla tela prima di darla. Dipinge di testa che significa avere mestiere, conoscenza, percorso pittorico. I paesaggi marini sono immobili fermi in quel Mediterraneo dove la storia non ha bisogno di velocità, è, semplicemente è. Le imbarcazioni ferme tra acqua e mare potrebbero stare in un porto pieno di turisti dell’estate scorsa, o in un porto mercantile pieno di mercanti greci, romani.
Piccoli è il pittore del tempo fermo di questo mare che sta in mezzo alle terre, che non separa ma unisce. La pittura nasce nel tratto del pennello, sembra che tra la testa dell’artista non ci sia mediazione, manipolazione.
Il Mediterraneo è sabbia, colori tenui e non a caso: questo è il mare in cui non ti perdi anche se sei perduto. Le barche di Piccoli sono senza uomini, i paesaggi sono senza uomini perché gli uomini nel Mediterraneo sono ovunque. Piccoli li dipinge non dipingendoli: i suoi uomini sono quelli che hanno fatto le barche, hanno costruito i paesi appiccicati all’ultimo pezzo di terra prima del mare. Anche le vele non gonfiano, perché il viaggio è sempre domestico, è sempre familiare.
I colori si sovrappongono per linee di pennello e si fanno forma.
Ecco le barche sono colore, colore è il mare, colore sono le case. Il Mediterraneo è colore e il colore è umano è il filtro dell’occhio del mondo.
Ad una prima lettura mi sono sentito solo davanti a questi paesaggi, quasi l’umano era cacciato, cancellato. Poi mi sono sentito avvolto. Per chi è Mediterraneo è normale “indossare” città così piccole da essere su misura, a misura mia se ci abito io, a misura del vicino se è lui a viverci.
Piccoli dipinge città, spiagge, mari che si indossano.
Perché piace agli americani, perché lì le città scivolano lungo la 66, scivolano dentro la prateria, scivolano nelle luci metropolitane.
I paesi di Sicilia, di Sardegna, del Lazio sono come fiori di un unico prato.
Piccoli ha tecnica pittorica, è figlio di una scuola, ha buoni maestri, ha mano, ma ha l’istinto del colore.
Alcune immagini “ferme” hanno la stessa staticità dei Macchiaioli. Come quelli sono testimonianze di mondi che “transitano” verso la loro fine.
Le luci artificiali sono i nemici della pittura di Pietro Piccoli. Lui ha visto il mondo nella luce che danno sole e mare. Pietro da luce anche alle nature morte, sono oggetti posti alla luce.
Hanno paralato di pittura mediterranea, consentitemi di dire “pittura” e basta. Perché il Mediterraneo non è chiuso, il Mediterraneo è una porta aperta, non chiusa.
Al termine del catalogo ci sono una serie di tele sul tema della sedia, una serie di sedie che “ospitano” non umani. Qui il discorso sull’umano è lo stesso delle barche, è la futtura delle cose la cosa più umana, per piccoli gli uomini sono quel che fanno. Pietro Piccoli dipinge in maniera iperbolica l’homo faber, l’esatto contrario dell’homo finanziario che ha ucciso le economie mondiali (del resto non si potrebbe dipingere la finanza). Le sedie sono testimonianza umana, sono la parte femminile del maschile che sono le barche. Nei paesi della costa gli uomini vanno per mare, con le barche, le donne aspettano sedute nelle sedie. Il maschile e il femminile dello stesso mondo. Sedie che, per chi è vissuto, dentro questo mondo non potevano che essere quelle con la seduta di paglia. Sono, quelle sedie, il ritratto delle nostre nonne, della nostra civiltà povera ma rigorosa, rispettosa pulita.
Una pittura nostalgica? No, anzi brillante, pulita, aideologica. Una pittura di testimonianza, il catalogo è un Gran Tour costiero, marino senza una certa alterigia culturale che avevano i romatici del nord. Pietro Piccoli dipinge il Mediterraneo da dentro.
Per questo affascina gli americani, perché è il colpo violento alla pancia del mondo nuovo che parte da dove è nato il mondo. Piccoli dipinge le radici d’occidente.

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