mercoledì 18 agosto 2010

L'ARCINORMALE- I dubbi di Cossiga



Lidano Grassucci

Lo ammetto, non sono scevro da considerazioni personali su Francesco Cossiga. Perché quel “nemico” era, ed è, intellettualmente affascinante. Colto, ed è merce rara in questa Italia di figurine, spiritoso, cosa che mi pare eccezionale lì dove sono tutti serissimi fino alla noia, curioso, lì dove la massa è ebete e tronfia nel suo niente.
Aggiungo, affascinante perché legato alla sua terra, la Sardegna, visceralmente benché uomo del mondo, anzi per questo più globale di qualsiasi altro e, consentitemi, juventino di quella classe che solo quelli della Juventus hanno, innata. “I veri sardi sono della Juventus” diceva. Già, è vero, gli italiani che non stanno inurbati, intruppati nelle città dormitorio sono juventini.
Adriano Sofri, il capo di Lotta Continua, è l’uomo che è diventato il capro espiatorio della criminalizzazione di due generazioni di italiani a Radio Radicale, questa mattina, si è detto “addolorato” per la morte di Francesco Cossiga. Sofri, credo, non sia pentito del suo sogno giovanile, non sia revisionista del suo immaginare un futuro diverso. Questo non significa non riconoscere la grandezza dell’avversario. “Ciascuno di noi è le sue contraddizioni, non siamo non contradditori” aggiungeva Sofri.
Leggevo Sofri e Lotta Continua da socialista, non ne condividevo l’eccesso ideologico, vicino al delirio, ma l’ansia libertaria di quel movimento era nostra. Per questo noi della Fgsi (la federazione dei giovani socialisti) eravamo i più ansiosi rispetto al movimento, i più vicini. Certo dietro avevamo la storia, la cultura, i temi del riformismo, ma l’ansia libertaria era il tratto fondamentale del nostro sogno di Italia nuova.
Cossiga, è vero, mandava la polizia. Ma il capo della Polizia (era ministro dell’interno) cosa può mandare contro la piazza in rivolta, le rose? Il caffè? Un Campari?
Qualcuno si era messo in testa di fare la rivoluzione con lo Stato che si faceva rivoluzionare. Come se lo Zar avesse aderito al Bolscevismo, o ne era esaltatore.
Cossiga è stato fermo sul caso Moro, noi socialisti pensavamo che l’umano (ed è merito di Craxi questo pensiero) era “dovere dello Stato”. Noi socialisti avevamo l’idea che lo Stato se non tratta per salvare un uomo non è umano ma è il Leviatano aumano che spiega la tragica storia del Novecento. Cossiga la pensava, ed agì, diversamente. Diversamente dalla sua coscienza, lui era cristiano, e la vita per un cristiano fa premio su tutto, anche sullo Stato, ma era ministro della Repubblica, se agiva per Moro in termini percepiti come difformi rispetto a quanto si sarebbe fatto per altri, sarebbe diventato aStato, non Stato, sarebbe stato considerato ingiusto.
Agì con quella dicotomia, umanissima, che spiegò un giorno a Cirino Pomicino, suo amico democristiano: “in me c’è un omino bianco che costruisce, con scrupolo, ed un omino nero che distrugge. Litigano i due omini e io mi diverto tanto”. Mettete voi il bianco e il nero, metteteci le magliette ma in lui c’era una coscienza personale che era per salvare Moro, ed un dovere pubblico che rendeva la cosa impossibile. La prima cosa, non averla fata, ha segnato la vita di Cossiga e del Paese, l’unica cosa che si può fare non è sempre la cosa che la coscienza reputa giusta.
La vita non è un’autostrada, è un tratturo dove il giusto e l’ingiusto sono curve sia a destra sia a sinistra.
Era sardo Cossiga, non è un elemento marginale. Mi spiegano sempre che prima della rivoluzione agricola eravamo nomadi e il legame con la terra non esiste. Sarà, ma se nasci in un posto quello ti entra nelle ossa, nei sensi. Non vivo da anni nel posto dove sono nato, ma ogni volta che ci ritorno l’odore, i suoni, le facce, i sassi, il vento mi cambiano l’anima, come se lì sono sempre stato. Cossiga questo lo spiegava lo raccontava, non lo negava come fanno i provinciali quando diventano romani, milanesi o di Parigi. Essere di Roma, di Milano, di Parigi, di New York è possibile solo se si è se stessi, altrimenti non sei niente.
“Nella mia vita sono stato tutto, tranne Papa, ma perché non ho mai preso i voti”, lui era così: colto, intelligente, ironico. Un pezzo di storia di questa Nazione, l’altro, l’amore e l’odiuo che l’uomo ispira sono retorica. A me è stato simpatico e mi ha regalato i dubbi.

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