mercoledì 23 giugno 2010

GIORNI DI STORIA - AMEDEO GUILLET


Fabrizio Bellini 

Il 17 maggio 1941 il Duca d’Aosta, Amedeo di Savoia, si arrese alle truppe del generale Cunningham. Prima di scendere dai tremila metri dell’Amba Alagi  e consegnarsi agli inglesi, lasciò liberi gli ufficiali di scegliere il proprio destino e riservò a se stesso la drammatica condizione di prigioniero che doveva portarlo alla morte il 3 marzo del ’42 a Nairobi. La fine di un sogno durato oltre settant’anni: l’Africa orientale italiana. Dalla baia di Assab a un lettino d’ospedale, passando per Dogali, Sahati, Makellè, Amba Alagi, Adua e così via. Quanto sangue versato inutilmente. Quasi tutti seguirono il Duca. Il tenente Amedeo Guillet, no. L’idea di arrendersi non lo sfiorò neanche. Rommel era già in Libia con il suo Afrika korps e i panzer tedeschi promettevano una rapida e radicale inversione del corso della guerra. Se le forze dell’Asse fossero arrivate a Suez, la presenza di un nucleo di resistenza italiano in Etiopia avrebbe favorito la riconquista della terra di Hailè Selassiè. Per questo bisognava sopravvivere a ogni costo e logorare le forze di Sua Maestà britannica. Amedeo Guillet si assunse volontariamente questo pericolosissimo compito. Lo svolse con straordinario coraggio fino a quando Marte, il dio della guerra che non sorride mai a lungo ai dittatori, seppellì le armi italo tedesche sotto le sabbie fatali del Nord Africa. E’ morto a Roma venerdì scorso a cento uno anni e fino a un istante prima di tornare nella casa del Padre, era considerato un mito vivente. Un’icona del coraggio e un simbolo dell’integrità morale italiana. Ora è già una leggenda. La leggenda del cummandar as shaitan (il comandante diavolo) come lo chiamavano i suoi cavalleggeri amhara. La leggenda di Ahmed Abdallah al Redai, il nome arabo yemenita che assunse quando rifiutò di arrendersi all’Amba Alagi e decise di iniziare una guerra “privata” contro l’Impero britannico. La leggenda del suo cavallo bianco Sandor e di Kadija, la sua bellissima compagna etiope diciannovenne che fu con lui in tutte le imprese compiute in clandestinità. La leggenda di un ufficiale aristocratico, non sconfitto, che divenne Sua Eccellenza il  Barone Amedeo Guillet, Ambasciatore della Repubblica italiana in Marocco, Yemen, Giordania e India. La leggenda di un italiano dimenticato per tanto tempo dalla morte che seppe servire con la stessa lealtà sia la Monarchia che la Repubblica. Ma prima della leggenda esistono i fatti e di uno di questi voglio parlarvi ancora. Di uno solo tra i tanti, emblematicamente, con l’unica speranza di riuscire a ricondurre la retorica delle celebrazioni all’oggettività degli avvenimenti. E’ noto che l’espansione italiana in Africa orientale nacque nel 1866 con l’idea di sviluppare i traffici marittimi attraverso il canale di Suez che si sarebbe poi inaugurato il 17 novembre 1869. “Proprietà Rubattino comprata agli 11 marzo 1870” recitava la tabella piantata nella baia di Assab, in Eritrea, e dopo più di settant’anni di intrighi e di battaglie, il tenente Guillet era ancora lì a difendere i sogni italiani guidando la carica dei seicento cavalieri del “Gruppo Bande amhara a cavallo ” contro le colonne corazzate britanniche in marcia per Cherù alla conquista del cuore dell’Impero italiano. Ebbe duecentosessanta feriti e perse centosessantasei uomini e cento cavalli. Quella carica di cavalleria fu un episodio non unico ma comunque straordinario ed ha un antefatto che ne è stato la premessa e la ragione. Non è molto noto. Nella grande sintesi della storia si perde tra i dettagli, ma, proprio per questo, è giusto ricordarlo. Era l’alba del 21 gennaio 1941 e Guillet aspettava gli inglesi nascosto in una profonda depressione del terreno a più di cento miglia da Cherù. Aveva calcolato che sarebbero arrivati da Est ma non sapeva che dal Surrey Yeomanry Regiment della IV Divisione indiana si erano staccati tre carri  Mathilda con compiti ricognitivi. (Avete mai visto un Mathilda da vicino? Fa paura solo a guardarlo).  Se avessero proseguito nel loro cammino si sarebbero trovati alle spalle del Gruppo Bande di Guillet che sarebbe stato sorpreso e non avrebbe avuto il tempo di cambiare schieramento. Se ne accorse il tenente Renato Togni che dalla sua posizione all’estrema destra del Gruppo, vide l’avanguardia inglese avanzare verso uno uadi a meno di un chilometro dal punto in cui erano nascosti i suoi compagni. Inviò una staffetta a Guillet per avvertirlo del pericolo, scelse trenta uomini, indigeni, e con loro cavalcò come un forsennato contro i tre carri armati britannici urlando e lanciando bombe a mano. Per bloccarli o almeno rallentarli. Furono uccisi tutti, tranne un ascaro. “The most gallant affair until now in this war” annotarono gli inglesi nella storia ufficiale della campagna d’Etiopia. Questa azione disperata dette a Guillet il tempo di riorganizzarsi e di gettarsi a sua volta contro l’intero reggimento britannico. Il numero dei morti  l’ho già ricordato. Nella motivazione della Medaglia d’oro al valor militare conferita al Tenente Togni c’è scritto tra l’altro ”…colpito prima al petto, poi alla fronte da raffiche di mitragliatrici … si abbatteva morto con il proprio cavallo su un carro nemico. Il nemico, colpito da tanto fulgido eroismo, rendeva alla salma gli onori militari” Retorica? Forse si, un po’, ma non solo. Non si spiega facilmente l’eroismo (follia ?) contagioso e collettivo di più di seicento persone che decisero, a un certo punto della loro vita, di opporre quello che avevano, cioè zoccoli, criniere, pelle e sudore alle piastre d’acciaio dei carri armati del Sovrano d’Inghilterra. Renato Togni riposa in una tomba senza fiori nel cimitero militare di Cherù, ma degli altri ventinove cavalieri amhara morti con lui si è persa ogni traccia. E se non fosse per i pochi  che continuano a scriverne, se ne perderebbe anche la memoria. Per questo ve ne parlo, qualunque sia il vostro giudizio sulla politica coloniale italiana ed europea in genere. Di Renato Togni resta anche una fotografia che lo ritrae in divisa e a cavallo, con il cappello posto a sghimbescio sulle “ventitre”. Il suo viso è bello e franco. Sorride. E’ morto massacrato il giorno del suo ventottesimo compleanno. Resta anche un interrogativo: per chi? Ma non so rispondere. Pensando a una Padania anti italiana, alla restituzione dell’obelisco di Axum, alle scuse di Berlusconi a Gheddafi, mi si confondono le idee. Mi perdo tentando di dare un segno e un senso al nostro carattere nazionale; alla dimensione della nostra coerenza storica; all’immagine che abbiamo di noi stessi; all’orgoglio che abbiamo di essere italiani. Mi mortifica il ricordo di tante vite spezzate così, come sembra oggi, come in troppi vogliono credere, senza un senso. Ma forse è perché anche il mio tempo è finito e quel poco che forse mi sarà ancora concesso, non lo capisco. E non mi piace. Su Amedeo Guillet sono stati scritti due libri. Uno, di Vittorio Dan Segre, si intitola “La guerra privata del tenente Guillet” (Corbaccio, 1993), l’altro, “Amedeo”, è di Sebastian O’Kelly (Rizzoli, 2002). Ci sono anche studi meno noti e tra questi una brillantissima tesi di laurea di uno studente di Scienze Politiche della Sapienza che ha trascorso due mesi al Public Record Office di Londra per ricostruire la consistenza dei danni e delle perdite inflitte agli inglesi dalla guerriglia condotta da Amedeo Guillet dal maggio del ’41 fino alla fine della guerra in Africa. Sono così consistenti che si capisce bene la ragione per la quale i comandi inglesi destinarono una specifica sezione del loro Intelligence alla ricerca degli irregolari italiani che avevano sublimato l’arte del sabotaggio e della guerriglia. Si è spenta una vita straordinaria, direi, amaramente, quasi nell’indifferenza generale dei media. Pochi trafiletti sulle grandi testate, nessun editoriale e nessun servizio nei telegiornali. L’Italia di oggi gli preferisce il “va pensiero” e il ghigno di Lippi. Ingrati connazionali. In Inghilterra lo avrebbero onorato ogni giorno e per sempre. Di Amedeo Guillet e delle sue imprese i nostri giovani studenti non sanno nulla. Non sapranno mai nulla. I programmi scolastici hanno cancellato le tracce del nostro passato coloniale inducendo nei docenti la convinzione che dobbiamo vergognarcene. Io non me ne vergogno  e non mi stacco dal pensiero che il vecchio cummandar as shaitan è di nuovo in sella a Sandor e che Renato Togni cavalca con lui. Vicini, nel sole, nel vento, nella gloria, nel rimpianto, nell’onore. E insieme a loro tantissimi altri. Che non dimentico. Che non voglio dimenticare.

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