mercoledì 23 dicembre 2009

Natale e grano nuovo




Lidano Grassucci


È  Natale, ma io non credo, forse. Meglio credo che questa vita sia qua e non oltre il muro che abbiamo davanti. Allora che senso ha questa festa per me? Non dovrei dire. Ieri Fabrizio Bellini su queste colonne mi ha definito perfetto e chirurgico, autodefinendosi passionale e agricolo. Non sono un chirurgo e non sono preciso e, per fortuna o purtroppo sono contadino, e Natale l’ho capito verso mezzogiorno di ieri. È venuto da me d’improvviso. Dopo giornate grigie è uscito un pezzo di sole e dalla macchina ho guardato la campagna, c’era il grano nuovo verde intenso. Era uscito dal gelo, era grano cucciolo. Da piccolo andavo, di questi tempi, in mezzo alla campagna e accarezzavo il grano, lo sentivo tenero e ingenuo sotto il palmo della mia mano. Era vita acerba ma prepotente, infingarda. Quando il grano spunta è verde invasivo, è “prepotenza”. Ho sempre avuto un rapporto tattile con la mia terra, mi piace sentirla tra le mani, spaccarla. La riconoscerei tra mille e in altre mille non ho trovato: la terra della mia piana è grassa di neri, è intensa di marroni, è infida quando diventa fango, è aspra quando si spezza per la secca. Quando un contadino va oltre la terra sua, la prima cosa che fa “sente” la terra, la cerca. Per questo qualche giorno fa ho cercato di spiegare come non sono capace a lasciare questo posto, un contadino è se ha la terra, se sta nella terra sua. Prendi un contadino e lo porti da un’altra parte, muore o non vive che è peggio. La terra ti prende quando la lavori, la senti, la odori, la guardi, la riconosci. Quando se ci metti la mano sopra lei ti risponde, la terra e il contadino si parlano, bisticciano, si comprendono.
E, ovunque va il contadino, va a vedere se esce il grano nuovo. Nel lessico della mia gente il grano nuovo è segno che anche l’anno prossimo mangeremo, saremo vivi, avremo speranze. Anche l’anno nuovo saremo qui. Quel grano è speranza e la speranza è l’unica ragione per noi viventi. Gli ebrei per 2000 anni si salutavano rinnovando una speranza, in qualsiasi parte del mondo si trovassero auguravano a se stessi e all’altro: “l’anno prossimo festeggeremo a Gerusalemme”. La maggior parte di loro non l’aveva neanche vista in cartolina e non la vide mai. Ma speravano e sono andati avanti per due millenni. Non so se ha a che fare il grano nuovo con il Natale, so che io contadino capisco il Natale da questa cosa qui.
Il palmo della mia mano sente il piacere della vita che viene, come se mettessi le mani nella pancia del mondo. Forse per questo Natale viene da nascere. Poi se nasce il grano, il Salvatore, o un bimbo fa la stessa cosa, è la speranza che sta dentro il Natale, è l’idea di domani meglio di oggi.
Cosa voglio augurare a chi mi legge? Che la vita nuova è già germogliata, che l’anno prossimo avremo di che gioire e avremo pane. Lo racconto perché è il caso di capire quel che facciamo: il pane a Natale sa di uova, burro, uva e frutta candita è serenità nel consumare la farina che resta perché ne verrà di nuova.
Il mio Natale è così, è un inno alla vita che è già sbocciata. Mani, terra e grano serve questo a Natale. Buon Natale.

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