venerdì 26 dicembre 2008

Remember Lepinia


di Lidano Grassucci

Sbatte la manona sul tavolo e alza il tono di voce: “Mo basta, rifacemo la Lepinia”. Gli astanti restano di sale, non era questo l’argomento, ma lui insiste. “E’ venuto pure Bossi qua a Latina, ci andiamo a parla. Ripartiamo alla grande”. Poi si ferma, sbatte di nuovo la mano sul tavolo e rilancia: “Beh, so o non so i governatore”.
Enzo Eramo, capogruppo del Pd a Sezze, prudentemente cerca di abbassare i toni. Ma gli altri sembrano aver avuto una carica aggiuntiva. Giannetto è il primo: “I’ so fatto già na società e la so’ chiamata Lepina, pe non capisce niente”. Sergio Corsetti cerca la quadra costituzionale della cosa, certo questo non è il posto da cui può partire una rivoluzione. Non è proprio la sala della Pallacorda da dove è nata la Francia nuova, quella senza padroni, quella dei cittadini. Siamo da Mena, piana di Sezze, di giorno si vede l’Appia, di là verso il mare è Latina, di qua Lepinia.
Qui la terra è nera oltre l’Appia è rossa, qui si riuniscono i contadini per parlare delle cose del mondo: affari, donne, lavoro, vino e… rivoluzione quando è il caso. Qui davanti aveva il terreno Alessandro Di Trapano il capo dei contadini di Sezze. Qui non sono usi ai compromessi. Come diceva Guareschi di Brescello: qui il sole batte forte e gli animi si riscaldano facile.
C’è anche il sindaco di Sezze, Andrea Campoli che glissa, lui è una istituzione, non può prendere parte.
E’ GiovanBattista Giorgi che non vuole mediazioni: “Qua vengono tutti e li accogliamo a braccia aperte, ma questo non significa che noi siamo niente”.
La butto lì: “facciamo il bilinguismo nei cartelli stradali, ufficializziamo l’uso della nostra lingua in consiglio comunale”.
Titta incassa: “E’ bene, è bene che torniamo in campo che riprendiamo questo discorso”. Sono passati di qui francesi, spagnoli, tedeschi, inglesi e americani. Tutti con l’idea di farla da padroni, ci provarono pure i fascisti a imporre “regole”, ma qui niente non passava il messaggio. ‘Sti contadini non sanno proprio marciare, non riescono a intrupparsi e poi, sotto-sotto, restano eretici. Latina è lontana, non per via dei chilometri, ma per via della terra. Qua è nera, nera come il carbone, come uscita da una vulcano. Qui la terra ti entra dentro i pori della pelle, ti veste, ti fa “negro”. Chi lo ricorda che in America solo fino a pochi decenni fa si domandavano se questi contadini erano negri più che bianchi. Arrivarono alla conclusione che eravamo negri, poi arrivò Caruso e qualcuno cominciò a dubitare, un popolo che cantava in quel modo aveva qualcosa di speciale. Già un popolo che cantava così non poteva essere “normale”. Da queste parti di tanto in tanto cantano, di tanto in tanto un brivido passa per questa gente che si ricorda di come Dio li fece liberi in una terra che era, ed è, di nessuno perché è posto che uccide. Combatte sta gente, se ci crede, non per obbedienza.
Per obbedienza non fanno niente, mica si piegano.
Titta riprende il discorso: “Iamo a parlà co Bossi, ci spiegamo, ci raccontamo”.
Di che? Di Roma, dei Papi, dei francesi, degli spagnoli, dei fascisti che ci hanno rubato la terra. Di noi che ci siamo vergognati della gente nostra, della storia, che ci sentivamo di meno davanti ai signori che parlavano pulito.
Che ci raccontiamo a Bossi, che non ci siamo più, che siamo una invenzione, che non abbiamo le statue con i nostri eroi. Che ci hanno comperato con un posto in fabbrica?
Il sindaco Campoli sorride, forse è vero che qui diventerà tutto normale, anche qui arriverà il vino che ha il retrogusto di mirtillo, arriveranno i piatti per gustare e non si mangerà più, arriveranno le birre al doppio malto e il pan carrè.
Si parlerà senza accento prima in italiano, finchè dura, poi in inglese. Si fa notte, e la cosa diventa nebbiosa, l’umido sale dalla terra e fa “fumo” sulla campagna, poi sulle strade. Perché la notte qui noi non ci stavamo, la notte era della terra, gli uomini tornavano dentro le mura su in collina. Qui c’era spazio per secolari, per femminelle, per lupinari, per uomini che non avevano più passato, che non speravano nel futuro. Per legionari, per francesi persi, per tedeschi sorpresi nei viaggi in Italia tra l’Appia e il niente.
Come era bello il nostro mondo, il silenzio non aveva fine, e i senza legge si nascondevano qui. Ora c’è una strada, l’asfalto, un posto come un altro, una periferia come un’altra.
Quando i sermonetani partirono per difendere l’Europa dai mori, mica sapevano di cani e di cristiani, partirono perché c’era da partire, per via che i mori venivano ad insultare le nostre donne, non era per Fede ma per onore. Per questo tornarono, pochi, e vittoriosi, per questo combatterono in mare loro che erano gente di acqua ferma. Per onore.
Mo, vallo a raccontà a Bossi. Sergio prende appunti e prepara la costituzione, Enzo è d’accordo ma con un retrogusto contorto ed è anche d’accordo con altri.
Prendo la macchina e torno a Latina, ma che sarà sta Lepinia? Poi mi viene davanti, all’altezza degli archi di San Lidano, nonno Lillo che canta: “la ciociara va a Caserta co ‘nà ciocia rotta e una spaccata…”. Che c’entra, forse la Lepinia è questa.

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