Lidano Grassucci
Faccio queste considerazioni per una serie di accidenti che mi sono capitati in questi giorni. Rincontro una persona che aveva, con un breve scarto temporale, condiviso con me le esperienze rivoluzionarie giovanili, quelle del liceo in tempi in cui “tutto” era politico, fino ai sentimenti. Mi guardava e mi interrogava con quel filo che pareva non interrotto. Mi sono sentito riproiettato indietro e vedevo davanti a me i miei sogni, quelli della mia generazione. I miei sogni di allora e la meschina prassi quotidiana del mio oggi. A poca distanza di tempo mi chiama Daniele Cardarello, lui è di Destra, un ragazzo di Destra, e mi invita a fare il relatore del nuovo libro di Michele Merlino, una riflessione su un testo teatrale di Robert Brasillach. Il libro parla di sogni, almeno Merlino parla di sogni nel suo contributo. Certo per me antifascista, iperliberale è un altro mondo, e non entro dentro i giudizi storico-politici che ci porterebbero lontano e distanti, ma entro nell’idea della politica come “sogno”, come immaginazione di domani. E qui nell’“errore” di Merlino (la sua immagine del mondo) ci sono le sensazioni del mio sogno giovanile che quell’incontro mi ha ripresentato con il disinteresse del tempo passato. Sognavo, ingenuamente, un mondo “giusto”. Ma il ragionamento non è sul fine, che è diametralmente, oggettivamente, opposto a quello di Merlino, al collaborazionismo di intelligenza di Brasillach con l’occupante tedesco di una Francia eroica, ma sul sogno. Nell’opera teatrale Domremy recuperata nel volume c’è la figura di Giovanna D’Arco che si sacrifica eroicamente per… “un sogno”. Ecco sacrificio e sogno sono i termini di questa riflessione: per me di allora, per Merlino e per intere generazioni a cavallo degli anni ’60 e ’70 ci si poteva “sacrificare” per un “sogno”, quanto oggi ci si sacrifica per acquistare una vettura, per un viaggio ai tropici. Prassi ignobile oggi, quanto follia del sogno ieri. Quando per la prima volta Merlino mi invitò a presentare un suo libro mi stupii: cosa ho io a che spartire con dei fascisti? Li consideravo, come più volte gli ho detto, aumani , oltre, fuori dell’umanità. Non mi sono mai pentito del mio amore per la libertà, ma certo nell’altro, nel “nemico”, c’era l’umanità del sogno che non era dissimile dalla mia. Poi ci sono sogni felici e sogni incubo, credo che il loro sia sogno incubo ma non è meno sognare. Solo che Merlino coltiva quel sogno, io, molti della mia parte, siamo stati uccisi dalla prassi, avevamo forse un sogno più equo, per me più bello, ma più cagionevole rispetto al virus della prassi. Dico questo perché quell’incontro, da cui sono partite queste riflessioni, mi ha rimesso davanti l’immaginazione che era e che non è più. E non è più in una società in cui la politica è presentare le carte in tempo in tribunale, è gioco tra onesti e disonesti, sulla bontà del capo. Gaber diceva che “ci siamo ritrovati come gabbiani rattrappiti senza più neanche l’intenzione del volo”. Ecco mi sono ritrovato davanti al tempo che ero e un po’ ho provato vergogna per queste ali che volevano volare ed ora si sporcano di terra.
Quale era il sogno della Polverini? E che sognava Di Pietro? Che incubo aveva Bossi? Guardo quest’incontro che mi viene dal tempo e non ho parole per il borghese che scimmiotto e l’adolescente che voleva cambiare il mondo. Dirò questo a Merlino il 26 a Foro Appio, gli racconterò di quel sogno che avevo e della scimmia che sono, del virus della prassi quotidiana che è la politica senza politica di oggi. Mi sono trovato davanti quello che ero stato con la mia corazza di speranza, tanto nudo del vivere quotidiano di oggi. Gli incontri ti cambiano e la tua storia ti insegue e si ripresenta in forme che non ti aspetti.
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