giovedì 17 settembre 2009

Videocracy e l’indignazione

tieffe
Avevo giurato a me stessa che non avrei parlato della parata del signor B. in quel d’Abruzzo. Ma poi quella sera in compagnia di G. ho scelto di andare a vedere al cinema Videocracy. E forse era meglio, per il mio stato di indignazione, guardare la buffonata di Porta a Porta che vedersi sbattuto in faccia quello che siamo. Perché alla fine la serata è stata tutta sotto il contrassegno volgare della cultura imposta dalle televisioni del signor presidente del consiglio. Il film, che poi sarebbe un documentario fatto benissimo, comincia con il prodromo di quello che poi sarebbero diventati i canali Mediaset e così continuando anche Rai. Un programma di quiz con telefonate da casa. A ogni risposta esatta una casalinga si spogliava di un pezzetto. Erano gli anni Settanta. E poi si continua con quell’infimo venditore di fumo di Lele Mora. Che racconta in toni ambigui e divertiti (mentre mostra fiero [sic] la suoneria del suo cellulare che trilla faccetta nera) di come porta in televisione “i suoi ragazzi” mentre questi giocano e cantano con le tartarughe in bella vista sulla piscina del patron. E poi quel dongiovanni da strapazzo di Fabrizio Corona, che non capisce evidentemente l’intento del documentario e si fa riprendere in tutta la sua nuda nullità. Il documentario di Erik Gandini racconta di come la democrazia sia stata sostituita dalla tv. Di un ragazzotto che dice che per le donne è più facile darla via pur di andare in tivvù e che lui sottostarebbe anche a una relazione omosessuale, ma solo per una parte importante. Per tacere delle varie apparizioni del signor B. sempre con quel sorriso catatonico schiaffato in faccia. Di un modo di penetrare e nostre vite che fa paura. Dalla sera bulgara di Porta a Porta non ho più guardato la tivvù. Il sottotitolo di Videocracy è “Basta apparire”. Appunto.

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