sabato 27 marzo 2010

Voto e lapis



Lidano Grassucci
Entro nella cabina elettorale, è primavera. Si vota sempre di primavera, forse che è tempo nuovo quello del voto? Ci ho fatto caso solo ora che sono dentro questo posto separato dal mondo come una ritirata di campagna. Sto qui con il lapis in mano. Già il lapis è come quello che avevo alla scuola elementare, nel tempo in cui la mia gente usciva dalla fame e di quella fame rimaneva la “semplicità del lapis”. Apro il foglio che mi hanno dato ci sono simboli colorati che non mi dicono, che non dicono, niente. Partiti di cui non conosco passato, non percepisco presente e, credo, non ritroverò sulla scheda la prossima volta. E pensare che ho iniziato a 18 anni nel ’79 o ’80 non ricordo bene con orgoglio. Entrai allora nella cabina tronfio, passando tra una selva di rappresentanti di partito che mi guardavano, andavo a votare il mio partito. Una cosa seria, tanto seria che papà, vecchio comunista come nonno, mi aveva tolto il saluto perché io votavo socialista. Non mi parlava per giorni prima e dopo: “Te so mannato puro alla scola, ma addo’ le tenete le ceruella?”. Era un tormento, io niente: votavo socialista. E ogni volta questa storia. Se non lo avessi fatto mi veniva mal di pancia, come se avessi mortificato me stesso. Ed è andato avanti tanto, mai dubbi. I candidati erano per me miti, quando parlava Riccardo Lombardi restavo estasiato, come se parlasse la storia della gente ultima di cui mi ero fatto parte. Papà era di quelli che “i forchettoni” mai, di quelli che pensavano che “se non sarà quest’anno, sarà il prossimo anno anche i preti lavoreranno”. Me la sono ritrovata nella canzone di Lucio Dalla sul futuro: “anche i preti potranno sposarsi, ma soltanto a una certa età”.
Pensavo di cambiare il mondo con il mio voto, di avere, pensavo, un domani meglio del presente. In camera mia c’era il poster con la faccia di Lombardi, c’era scritto: “E’ socialista quella società che dà a tutti le medesime opportunità”. Non diceva che saremo tutti identici, ma che tutti potevamo avere le stesse carte da giocare per vivere. Quante cose mi ricorda ‘sto lapis e questa cabina, la luce mi va sul foglio c’è una riga vuota dove mettere il nome. Cosa ci scrivo? Sto qui e vedo mio padre che con la millecento andava a votare, quando siamo venuti a Latina per lui era una testimonianza di diversità: andava al seggio di Santa Fecitola, i cispdani erano quasi tutti democristiani, i parenti di mamma (cispdani pure loro) erano pure un po’ fascisti per via che dalle nostre parti veniva Vincenzo Zaccheo. Papà andava con un orgoglio che manco i generali sovietici manifestavano alla parata del primo maggio, per votare comunista. Allo spoglio i voti comunisti erano pochi, quelli democristiani sempre troppi. Risultava dallo spoglio che neanche mamma lo aveva seguito, lei votava Dc. Ma era una storia che si ripeteva perché mentre nonno Lillo non aveva dubbi e segnava “i suricchio”, nonna aveva studiato dalle suore e votava la “croce”, santa e benedetta.
Mo? Che voto? Popolo della libertà? Perché c’è un popolo degli schiavi, dei sudditi, dei servi? Partito democratico? Che significa che gli altri non lo sono? Italia dei valori, perché c’è l’Italia dei disvalori? E quali valori?
Il lapis è l’unica cosa rimasta della mia prima volta, io votavo come Treves, come Turati, come Andrea Costa. Mo? Come Bondi? Voto il partito di Di Pietro? Voto come Capezzone? Voto come Bassolino? Voto come Travaglio? Mi sento triste e non so perché. Il lapis mi è compagno, ora barro. Ma dove. Quando finivo di votare andavo al bar con gli amici e la voce cresceva, ci si infiammava. Ora di che mi infiammo delle escort, dei trans, dei cappotti di cammello.
Sento in testa la voce di papà: “Te so mannato alla scola e non te su ‘mparato niente, non tenete le ceruella. Per vota’ci vo testa e testone”. Già, ma chi voto.
Mi ricordo di un mio amico che si candida, scrivo il nome, segno il partito suo e vado via, voglio andar via. Mi sento solo, solo quanto mi sentivo tanto insieme agli altri prima. Solo quanto mi sentivo figlio di una storia prima. Consegno la scheda, fuori uno mi chiede ridendo: “allora hai fatto il tuo dovere?”
Lo guardo e gli dico con rabbia che non merita: “no, mi vergogno un po’”. E non avrei coraggio di guardare negli occhi papà, nonno perché non sono un uomo, un uomo ha una idea: come recitava Cesare Chiominto “pe lo giusto se faceva accide”. Mi sono venduto la libertà, uomo misero sono.   

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