Lidano Grassucci
Vengo da una civiltà che chiama, da secoli, i bambini “mammocci”. Significa che i bimbi sono cose della mamma. La parola dà una esclusiva alla madre del rapporto con il suo piccolo. Una cosa sacrale a cui non esistono deroghe.
Sono stato allevato, come tutti noi, da nonne e madri fino a che era tempo che diventassi uomo pronto ad andare per il mondo, figlio del mondo. Allora, e solo allora, è stato tempo dei padri, degli amici, della vita, di donne altre.
Ho compreso il senso di questa cosa che la mia gente sente da secoli quando ho visto per la prima volta la pietà di Michelangelo a San Pietro: una madre che tiene tra le braccia il Cristo morto che è, prima di tutto, soprattutto, per lei figlio, figlio suo. Ricordate: Dio si fa uomo, si fa carne, ha una madre.
Guardate quella scultura colleghi giornalisti capirete il mondo e la mia civiltà in ragione della inciviltà che manifestate nel vostro agire. Il Cristo era stato “mammoccio” e nel momento del distacco a 33 anni, su quelle ginocchia ritorna per la Madonna “mammoccio”.
Per questa sacralità dei “mammocci” ieri avevo scritto ai lettori di questo giornale che non avremmo pubblicato le foto della bimba morta nell’incidente di Capodanno.
Avevamo detto che la foto nulla avrebbe tolto o aggiunto al nostro dovere di raccontare. Avrebbe solo offeso, negato, il sacrale rispetto che dovevamo a questa “mammoccia”. Ieri mattina ho aperto i giornali e in tutti c’era la foto della “mammoccia”, guardava il mondo che le era negato.
Mi sono indignato, ho sentito (penso non sia tempo del pudore delle parole) che c’è un modo nobile di raccontare e uno ignobile che trasforma il diritto di cronaca in arbitrio, in licenza. Con che coraggio andremo a scrivere di ladri, di malfattori, di amministratori corrotti se noi abbiamo violato la cosa più sacra che c’è: il rispetto della morte di una bimba? Abbiamo usato il suo ricordo?
Con che faccia facciamo per iscritto la morale agli altri, quando siamo immorali noi stessi, anzi peggio, siamo sciacalli.
Avevo sperato che i colleghi si interrogassero, si ponessero domande sui limiti. Non lo hanno fatto, hanno cercato di vendere di più non scrivendo meglio, ma puntando sul volto di una bimba, di una mammoccia. L’avete vista quella foto, era quella della prima comunione. Siete entrati anche in quel ricordo, abbozzava un sorriso nell’emozione di un giorno che per lei era importante. Avete rubato anche questo ricordo privato per farlo pubblico.
La cosa grave è che non vi siete messi nei panni della famiglia a cui quella bimba è venuta a mancare neanche per un secondo. Se quella bimba fosse stata vostra figlia, vostra sorella, una vostra amica? Le cose che raccontiamo, cari colleghi, riguardano persone in carne ed ossa, persone che hanno sentimenti, che amano, che odiano, che piangono.
Quando va via un bimbo è un pezzo di futuro che, semplicemente, non ci sarà.
Per questo c’è bisogno di rispetto.
La pietà non la conoscete, quella foto che avete pubblicato è “impietosa”. Non debbo aggiungere altro, se questo è il “mestiere”, io faccio altro.
lunedì 5 gennaio 2009
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